Sembra non ci sia altra scelta che quella di partire. Ma forse mi sbaglio, non c’è bisogno di partire se non ci si è mai fermati. Allora andare, continuare ad andare, guardare avanti. Ci dirigiamo senza meta verso l’ignoto, rassegandoci al nostro squallido destino di abitanti del mondo, in continuo movimento, sballottati da un parco giochi ad un altro, accontentandoci solo momentaneamente del piacere della scoperta per poi ripiombare nell’umiliazione e nella vergogna della nostra incompletezza, nell’ansia della nostra finitezza da colmare, pur consapevoli della sua incolmabilità, con disperati slanci verso il mondo resoci disponibile, accessibile a noi sventurati uomini e donne del mondo di oggi, velocemente avviato a diventare mondo di ieri, che non possiamo fare altro che girare, seguirne l’inconsapevole rotazione, trottolare infinitamente con esso senza posa, senza pensieri, in balia delle incrociate correnti che innalzano e sprofondano a loro piacimento.
Dopo una fugace visita nella città di R. ci ritroviamo per strada, felici di aver ripreso il cammino. Sì, perché quando ci si ferma per troppo tempo si sente quel demone dentro che ci grida di continuare il viaggio, o quello che pensiamo essere tale, verso la nostra destinazione che, tuttavia, non ci è stata resa nota, come un’agenzia di viaggi che prenotasse il biglietto aereo senza farci sapere la destinazione d’arrivo: il biglietto è bianco, l’aereo di una compagnia sconosciuta. Tuttavia, noi ci fidiamo di chi la sa molto più lunga di noi, di chi ne ha viste a migliaia, ha esperienza da vendere. Così senza esitazioni saliamo a bordo, allacciamo la cintura, e via verso una nuova destinazione.
All’arrivo saltiamo giù con rinnovata fiducia nel nostro percorso, sicuri che la vita abbia ancora molto da riservarci. La città di B. è grande e luminosa, e noi siamo impazienti di vivere le sue strade brulicanti di incosciente giovinezza. Certo, pensiamo, non così lungamente: qualche ora, al massimo qualche giorno, e poi di nuovo per strada ad inseguire l’infinito svolgersi della nostra esistenza. Non possiamo certo permetterci di sprecare tanto tempo qui, perdendoci quello che ci aspetta. Usciamo quindi da B. e incontriamo un crocevia: uno di quegli incroci che, quando gli si sta davanti, non se ne capisce il valore, ma che, qualche tempo dopo aver preso una delle due vie che dividono il nostro destino, ci si accorge della sua importanza. Svoltiamo a sinistra, abbiamo tirato a sorte e la sorte ha scelto a sinistra. A testa china ci dirigiamo dove il sentiero ci conduce.
Arriviamo finalmente nel paese di T.: la marcia è stata lunga e la comitiva si è ristretta sempre più. Chi non ha retto fisicamente è stato abbandonato al suo dolore; chi ha perso il senno è stato isolato nei suoi deliri. Qui dove siamo ora tutto è diverso, tutto ci è nuovo, eppure tutto è familiare. Le persone hanno un volto amico; le case esalano i fumi di focolari accoglienti; i vecchi del posto ci accolgono come nipoti che si vedono solo nelle occasioni speciali, riversando su di noi tutte le attenzioni che la solitudine accumula e conserva. Ci guardiamo negli occhi gli uni dell’altro, noi pochi sopravvissuti, intendendoci senza proferire parola: in questo luogo non vogliamo restare più a lungo di quel che le necessità impongono. Troppa tranquillità, troppa familiarità, qui la vita si è interrotta anni addietro, e noi non possiamo fermarci.
Ci allontaniamo da T. diretti altrove, diretti lontani. Non abbiamo intenzione di ancorarci a quel luogo, legarci ad esso, affezionandoci alle sue quotidiane abitudinarietà. Ci allontaniamo spaventati preferendo l’altrove, quel luogo sconosciuto dove finalmente potremo sentirci in pace con noi stessi. Sul ciglio della strada incontriamo un vecchio che ci rivolge parola. Ci accoglie come riconoscendoci, ci guarda come si guardano compagni d’infanzia che crescendo si perdono di vista e, quando si vedono, ritrovano tra le rughe del tempo i volti della giovinezza passata. Mi domanda: Quo vadis, nomade? Io lo guardo stranito, sospeso nell’incomprensione; al che rinsavisco e mi offendo: Nomade a me? Lui non risponde, mi guarda silenzioso, aspetta. Però ancora non capisco: io non sono un nomade, noi siamo semplici viaggiatori come tanti altri. Perché ci chiama così?
Ci siamo sempre pensati dei viaggiatori avventurosi, che il nostro viaggio avesse una fine, che conoscere altri popoli e culture fosse ciò che realmente ci interessava. Siamo quindi nomadi? Questo vagare, che credevamo sensato fino a poco tempo fa, è davvero dettato da necessità occulte che il nostro sguardo, vivo e spontaneo, non riesce, per quanto si sforzi, a individuare e riconoscere? Arriva per tutti il momento, però, in cui la realtà delle cose, ben più profonda di quel che appare, si palesa nella sua essenzialità, mostrando i suoi reali tratti.
Mi riguardo indietro e non faccio altro che pensare a quando ho deciso di partire ed andare, parola d’ordine che mi sono sempre imposto, unica che ho sempre rispettato. Ora finalmente capisco, e quel che sono sempre stato mi si rivela perspicuo e adamantino, quel che faticavo a comprendere ora è facile e immediato. Colui che si ferma è perduto per sempre, egli dovrebbe affrontare le difficoltà della tediosa vita sedentaria, morte dello spirito, accettare l’invecchiamento del corpo o, ancora peggio, accettare di non aver avuto abbastanza coraggio per proseguire sulla strada, che è la vita, che non si ferma e non si può fermare. Riconsiderando i nostri passi, inconsapevoli e infantili, li abbiamo sempre pensati, effettivamente, di là a venire, come se non ci fosse mai stata altra strada che quella ancora da percorrere.
Il vecchio ha ragione e, chi più chi meno, ognuno di noi scala le proprie montagne: alla ricerca di qualcuno o qualcosa che su quel sentiero è già passato, che quella strada l’ha già battuta, riesumando fantasmi perduti nel ricordo. Non esiste davvero nessun posto in cui io possa fermarmi e pensare di abitarvi per sempre, stabilirmi, invecchiare. Ci si ferma quando si pensa di aver trovato un senso, ed io un senso non penso di averlo trovato e, a questo punto, credo non ci sia. Non voglio fermarmi e fingere di averlo trovato.
Siamo stati così abituati a non accontentarci di niente che l’unico modo per guadagnare un minimo di soddisfazione è porre il suo raggiungimento in un futuro che, per quanto possiamo pretendere di inseguirlo, non arriva mai. Esso si trova sempre un pochino più in là, in un altro luogo, e quando pensiamo di esserci, di poterlo afferrare a due mani e finalmente goderlo a pieno, ecco che ci troviamo con le mani vuote, e l’altrove, dove avevamo riposto le nostre speranze e tutte le promesse che ci siamo fatti lungo la strada, si palesa per quel che è: illusione e velleità di ingenui sognatori. Ma sarebbe sbagliato pensare che questo nostro disagio sia condizionato da inclinazioni personali o generazionali, senza che sia un più grande fenomeno globale a spingerci ad un tale stile di vita.
Il nomade contemporaneo, alleggerito dalla mancanza di un gregge a cui badare, è gravato da un peso di ben altra misura: dopo essersi perso, vaga in cerca di sé stesso, spesso senza avere il coraggio di riconoscersi, rendendo indefinito il proprio arrivo, sempre che un arrivo sia mai stato previsto. Inoltre, caratteristica importante del nomadismo odierno, è quello di riguardare non solo chi fisicamente si sposta senza riposo, ma anche chi, pur non muovendosi e non avendo intenzione di farlo, vaga, come e a volte più dei primi, lasciando che sia la propria mente ad immaginare mondi lontani che non raggiungerà mai, dove risiede la vera felicità, l’atarassia da ogni sofferenza, il rimedio alla propria disperazione.
Nella società attuale il nomadismo è anche e soprattutto quello della mente, delle idee, dei principi su cui si basa la nostra esistenza. In un mondo così spaesato, privo di una mappa da seguire, affetto da una cronica labirintite, sarebbe strano non essere nomadi. Desterebbe quantomeno qualche sospetto chi riuscisse a trovare uno scoglio a cui appigliarsi in un mare così vasto e profondo dove gli altri si affannano a sopravvivere. E se ancora non ci si fosse accorti del disorientamento generale, dello sradicamento collettivo, si consiglia di uscire a fare un giro per strada, guardarsi attorno, guardarsi negli occhi. Provare tutti insieme ad immaginare un ultimo viaggio verso l’altrove, là dove questo mondo incerto finisce e cambia e muore e si trasforma. Là dove nessuno sarà più costretto ad abbandonarsi alla corrente che conduce verso l’ignoto della morte. Finalmente ci si potrà rassegnare e fermarsi, respirare profondamente, bloccare i pensieri, rivolgere lo sguardo al cielo e assaporare l’esistenza privilegiata di coloro che accettano di restare dove sono, e pazientare, imparare ad amare nel tempo, aspettare anche quel che non arriverà mai e, finalmente, capire che quest’effimero altrove non esiste se non nella nostra mente.