Verso l’in(de)finito, e altrove

Verso l’in(de)finito, e altrove

Sembra non ci sia altra scelta che quella di partire. Ma forse mi sbaglio, non c’è bisogno di partire se non ci si è mai fermati. Allora andare, continuare ad andare, guardare avanti. Ci dirigiamo senza meta verso l’ignoto, rassegandoci al nostro squallido destino di abitanti del mondo, in continuo movimento, sballottati da un parco giochi ad un altro, accontentandoci solo momentaneamente del piacere della scoperta per poi ripiombare nell’umiliazione e nella vergogna della nostra incompletezza, nell’ansia della nostra finitezza da colmare, pur consapevoli della sua incolmabilità, con disperati slanci verso il mondo resoci disponibile, accessibile a noi sventurati uomini e donne del mondo di oggi, velocemente avviato a diventare mondo di ieri, che non possiamo fare altro che girare, seguirne l’inconsapevole rotazione, trottolare infinitamente con esso senza posa, senza pensieri, in balia delle incrociate correnti che innalzano e sprofondano a loro piacimento.

Dopo una fugace visita nella città di R. ci ritroviamo per strada, felici di aver ripreso il cammino. Sì, perché quando ci si ferma per troppo tempo si sente quel demone dentro che ci grida di continuare il viaggio, o quello che pensiamo essere tale, verso la nostra destinazione che, tuttavia, non ci è stata resa nota, come un’agenzia di viaggi che prenotasse il biglietto aereo senza farci sapere la destinazione d’arrivo: il biglietto è bianco, l’aereo di una compagnia sconosciuta. Tuttavia, noi ci fidiamo di chi la sa molto più lunga di noi, di chi ne ha viste a migliaia, ha esperienza da vendere. Così senza esitazioni saliamo a bordo, allacciamo la cintura, e via verso una nuova destinazione.

All’arrivo saltiamo giù con rinnovata fiducia nel nostro percorso, sicuri che la vita abbia ancora molto da riservarci. La città di B. è grande e luminosa, e noi siamo impazienti di vivere le sue strade brulicanti di incosciente giovinezza. Certo, pensiamo, non così lungamente: qualche ora, al massimo qualche giorno, e poi di nuovo per strada ad inseguire l’infinito svolgersi della nostra esistenza. Non possiamo certo permetterci di sprecare tanto tempo qui, perdendoci quello che ci aspetta. Usciamo quindi da B. e incontriamo un crocevia: uno di quegli incroci che, quando gli si sta davanti, non se ne capisce il valore, ma che, qualche tempo dopo aver preso una delle due vie che dividono il nostro destino, ci si accorge della sua importanza. Svoltiamo a sinistra, abbiamo tirato a sorte e la sorte ha scelto a sinistra. A testa china ci dirigiamo dove il sentiero ci conduce.

Arriviamo finalmente nel paese di T.: la marcia è stata lunga e la comitiva si è ristretta sempre più. Chi non ha retto fisicamente è stato abbandonato al suo dolore; chi ha perso il senno è stato isolato nei suoi deliri. Qui dove siamo ora tutto è diverso, tutto ci è nuovo, eppure tutto è familiare. Le persone hanno un volto amico; le case esalano i fumi di focolari accoglienti; i vecchi del posto ci accolgono come nipoti che si vedono solo nelle occasioni speciali, riversando su di noi tutte le attenzioni che la solitudine accumula e conserva. Ci guardiamo negli occhi gli uni dell’altro, noi pochi sopravvissuti, intendendoci senza proferire parola: in questo luogo non vogliamo restare più a lungo di quel che le necessità impongono. Troppa tranquillità, troppa familiarità, qui la vita si è interrotta anni addietro, e noi non possiamo fermarci.

Ci allontaniamo da T. diretti altrove, diretti lontani. Non abbiamo intenzione di ancorarci a quel luogo, legarci ad esso, affezionandoci alle sue quotidiane abitudinarietà. Ci allontaniamo spaventati preferendo l’altrove, quel luogo sconosciuto dove finalmente potremo sentirci in pace con noi stessi. Sul ciglio della strada incontriamo un vecchio che ci rivolge parola. Ci accoglie come riconoscendoci, ci guarda come si guardano compagni d’infanzia che crescendo si perdono di vista e, quando si vedono, ritrovano tra le rughe del tempo i volti della giovinezza passata. Mi domanda: Quo vadis, nomade? Io lo guardo stranito, sospeso nell’incomprensione; al che rinsavisco e mi offendo: Nomade a me? Lui non risponde, mi guarda silenzioso, aspetta. Però ancora non capisco: io non sono un nomade, noi siamo semplici viaggiatori come tanti altri. Perché ci chiama così?

Ci siamo sempre pensati dei viaggiatori avventurosi, che il nostro viaggio avesse una fine, che conoscere altri popoli e culture fosse ciò che realmente ci interessava. Siamo quindi nomadi? Questo vagare, che credevamo sensato fino a poco tempo fa, è davvero dettato da necessità occulte che il nostro sguardo, vivo e spontaneo, non riesce, per quanto si sforzi, a individuare e riconoscere? Arriva per tutti il momento, però, in cui la realtà delle cose, ben più profonda di quel che appare, si palesa nella sua essenzialità, mostrando i suoi reali tratti.

Mi riguardo indietro e non faccio altro che pensare a quando ho deciso di partire ed andare, parola d’ordine che mi sono sempre imposto, unica che ho sempre rispettato. Ora finalmente capisco, e quel che sono sempre stato mi si rivela perspicuo e adamantino, quel che faticavo a comprendere ora è facile e immediato. Colui che si ferma è perduto per sempre, egli dovrebbe affrontare le difficoltà della tediosa vita sedentaria, morte dello spirito, accettare l’invecchiamento del corpo o, ancora peggio, accettare di non aver avuto abbastanza coraggio per proseguire sulla strada, che è la vita, che non si ferma e non si può fermare. Riconsiderando i nostri passi, inconsapevoli e infantili, li abbiamo sempre pensati, effettivamente, di là a venire, come se non ci fosse mai stata altra strada che quella ancora da percorrere.

Il vecchio ha ragione e, chi più chi meno, ognuno di noi scala le proprie montagne: alla ricerca di qualcuno o qualcosa che su quel sentiero è già passato, che quella strada l’ha già battuta, riesumando fantasmi perduti nel ricordo. Non esiste davvero nessun posto in cui io possa fermarmi e pensare di abitarvi per sempre, stabilirmi, invecchiare. Ci si ferma quando si pensa di aver trovato un senso, ed io un senso non penso di averlo trovato e, a questo punto, credo non ci sia. Non voglio fermarmi e fingere di averlo trovato.

Siamo stati così abituati a non accontentarci di niente che l’unico modo per guadagnare un minimo di soddisfazione è porre il suo raggiungimento in un futuro che, per quanto possiamo pretendere di inseguirlo, non arriva mai. Esso si trova sempre un pochino più in là, in un altro luogo, e quando pensiamo di esserci, di poterlo afferrare a due mani e finalmente goderlo a pieno, ecco che ci troviamo con le mani vuote, e l’altrove, dove avevamo riposto le nostre speranze e tutte le promesse che ci siamo fatti lungo la strada, si palesa per quel che è: illusione e velleità di ingenui sognatori. Ma sarebbe sbagliato pensare che questo nostro disagio sia condizionato da inclinazioni personali o generazionali, senza che sia un più grande fenomeno globale a spingerci ad un tale stile di vita.

Il nomade contemporaneo, alleggerito dalla mancanza di un gregge a cui badare, è gravato da un peso di ben altra misura: dopo essersi perso, vaga in cerca di sé stesso, spesso senza avere il coraggio di riconoscersi, rendendo indefinito il proprio arrivo, sempre che un arrivo sia mai stato previsto. Inoltre, caratteristica importante del nomadismo odierno, è quello di riguardare non solo chi fisicamente si sposta senza riposo, ma anche chi, pur non muovendosi e non avendo intenzione di farlo, vaga, come e a volte più dei primi, lasciando che sia la propria mente ad immaginare mondi lontani che non raggiungerà mai, dove risiede la vera felicità, l’atarassia da ogni sofferenza, il rimedio alla propria disperazione.

Nella società attuale il nomadismo è anche e soprattutto quello della mente, delle idee, dei principi su cui si basa la nostra esistenza. In un mondo così spaesato, privo di una mappa da seguire, affetto da una cronica labirintite, sarebbe strano non essere nomadi. Desterebbe quantomeno qualche sospetto chi riuscisse a trovare uno scoglio a cui appigliarsi in un mare così vasto e profondo dove gli altri si affannano a sopravvivere. E se ancora non ci si fosse accorti del disorientamento generale, dello sradicamento collettivo, si consiglia di uscire a fare un giro per strada, guardarsi attorno, guardarsi negli occhi. Provare tutti insieme ad immaginare un ultimo viaggio verso l’altrove, là dove questo mondo incerto finisce e cambia e muore e si trasforma. Là dove nessuno sarà più costretto ad abbandonarsi alla corrente che conduce verso l’ignoto della morte. Finalmente ci si potrà rassegnare e fermarsi, respirare profondamente, bloccare i pensieri, rivolgere lo sguardo al cielo e assaporare l’esistenza privilegiata di coloro che accettano di restare dove sono, e pazientare, imparare ad amare nel tempo, aspettare anche quel che non arriverà mai e, finalmente, capire che quest’effimero altrove non esiste se non nella nostra mente.

L’Italia nel guado

L’Italia nel guado

Le nazioni sono composizioni d’uomini; risorgono le nazioni quando risorge uno per uno a virtù ed a civiltà, a concordia di voleri la maggioranza degli uomini che le compongono

Ippolito Nievo, Due scritti politici

Lo ammetto. Mi dichiaro colpevole. Io, reo confesso, accetto la mia pena ed aspetto che la condanna venga eseguita. Aspetto pazientemente e aspetto ancora. Probabilmente aspetterò per sempre: nessuno verrà mai a far rispettare la legge. Ho peccato e tuttora pecco di far parte anche io di quel popolo, che ambisce dirsi italiano, che ripetutamente e consapevolmente pretende di non riconoscere sé stesso, considerandosi al di fuori, o meglio, al di sopra, della cosiddetta patria. Questo è, probabilmente, il più tradizionale dei sintomi dell’italianità: non sentirsi partecipi di un sentimento nazionale, contrastato e aborrito, che purtuttavia aleggia nell’aria, come un docile vento che muove le foglie ma di cui non si riesce a coglierne la direzione.

Addentrarsi nella grande questione riguardante l’identità nazionale italiana è impresa tanto ardua quanto essenziale. Decine di poeti, politologi e politicanti hanno provato nel corso dei secoli a definire questa nostra nazione, cercando di coglierne un senso che andasse oltre la considerazione dell’Italia come mera espressione geografica. Dal Sommo Poeta ai giorni nostri sembra però più facile identificare quegli elementi di cui il popolo italiano non dovrebbe, almeno così speriamo sia realmente, considerare come i veri valori su cui la nazione italiana, e l’appartenenza ad essa, sono fondate. Il collante di questa penisola che ci ostiniamo a chiamare casa è, a quanto pare, la mancata capacità dei suoi abitanti di oltrepassare le differenze locali, ed evidenziare quest’ultime più delle, certamente maggiori, somiglianze. La distanza che separa due italiani è tanto ampia quanto l’immaginazione che la crea. Essa è spesso inesistente, pretestuosa. Eppure, la si pensa presente, e si disprezza il proprio vicino senza averne apparente motivo. Predisposizione naturale di tutti gli uomini, si dirà. Nessuno lo nega, è più facile evidenziare i tratti che più ci differenziano rispetto a quelli che ci accumunano. Il popolo italiano ha però questa (in)capacità, al contrario di molti altri popoli, di non riuscire ad eliminare le distanze municipali quando ci si eleva a livello nazionale. Accade quindi che la patria venga ricordata maggiormente nella sconfitta, nella delusione, nella catastrofe; essa può così essere rinnegata a piacimento, demonizzata al minimo tentennamento, identificata come altro da sé, come versione amputata di quello che avrebbe potuto essere nella sua migliore versione (si, ma quale?). Da questa atavica tendenza tutta italiana si deriva un altro fondamento del nostro essere: la mancanza di responsabilità, la quale viene rivolta in una duplice direzione: verso noi stessi e verso gli altri, con implicazioni che collegano le due direttrici. L’Italia, intendendo cioè il popolo che la abita, ha sempre dimostrato profonde difficoltà ad accettare la sconfitta, a identificarsi con il perdente anche quando evidentemente lo è; tende a coltivare la cattiva abitudine di non volere fare i conti con sé stessa, con il proprio passato e la propria storia, mettendo in atto i due meccanismi di difesa più adatti: la rimozione e, come già detto, la proiezione. Rimuoviamo quanto riteniamo sia di troppo, e quel che non riusciamo a rimuovere lo consideriamo come una responsabilità altrui, come espressione di una componente malata della nazione a cui noi non apparteniamo, della quale non possiamo condividere il tragico destino. Questa la direttrice interna, quella che rivolgiamo verso noi stessi. Mentre quella esterna deriva anch’essa dalla proiezione delle proprie responsabilità, ma in questo caso suo oggetto sono elementi esterni ai nostri confini: se quel che succede in patria non ci piace, ci rivolgiamo speranzosi, trasportandoci direttamente dal municipale al sovranazionale, all’intervento di un veltro, per alcuni Provvidenza, politico, ideologico o economico che sia, che discenda in Italia per ristabilirvi la pace, l’ordine, e che sappia ripristinare, da straniero, il vero spirito patrio.

La delega della responsabilità implica però immancabilmente una rinuncia della propria libertà, della propria autonomia e indipendenza, della possibilità di poter determinare il corso della propria esistenza senza dover soddisfare necessità ed esigenze altre. Quel che l’Italia ha fatto e continua a fare va contro i suoi stessi interessi nazionali. Non c’è bisogno che io citi momenti, fasi storiche, personaggi, eventi, che dimostrino quanto è evidente a tutti noi.

Cosa fare quindi? Di fronte ad un quadro così desolante, destinato a riproporsi sotto diverse vesti ma sempre uguale a sé stesso? Come cambiare le cose? La strada percorribile sembra essere solo una: disperare; abbandonare speranze e buoni propositi; arrampicarsi sugli alberi e rifiutarsi di accettare la realtà dondolandosi da un ramo all’altro; recarsi all’agenzia delle entrate e fare di questa nazione legalmente bordello; comprarsi da sé il gesso e segnare le porte dove alloggerà il nemico, senza aspettare che sia lui ad approfittare della nostra ignavia. Apriamoci al mondo svuotandoci dall’interno. Rinunciamo ad essere qualunque cosa abbiamo mai avuto la velleità di considerarci.

Ma se fosse la perdizione ad essere la strada per ritornare al punto di partenza e provare a ricominciare? Certo, si potrebbe dire che la perdizione stia durando ormai da fin troppo tempo, e che il tragitto per giungere nuovamente da dove siam venuti sia fin troppo travagliato e tortuoso. Tuttavia, non è forse il riconoscimento dell’errore che ci offre la possibilità di redimerci? Non è la strada sbagliata che dovrebbe quanto meno darci l’idea di quella corretta? Siamo lenti ad imparare, questa è una certezza, ma così come si impara a zoppicare si può e si deve, per amor proprio, tornare a camminare dritti e coordinati.

L’incapacità di assumerci le nostre responsabilità ci ha portati, lungo la nostra storia, ad abbandonare la via maestra, quella che persegue il nostro interesse, per percorrere strade a noi sconosciute ma che ci siamo illusi fossero quelle a noi più adatte e congeniali: ci siamo sbagliati, abbiamo sempre sbagliato quando abbiamo preferito affidarci ad altri per cercare di salvare noi stessi: solo le nostre forze possono garantirci la libertà a lungo perseguita. La coscienza delle proprie colpe è solo il primo passo per la sua riacquisizione, d’altronde la società non si pone problemi per la cui soluzione non esistono già le condizioni necessarie e sufficienti. Troppo a lungo abbiamo indugiato in questa media condizione da esuli: provinciali e internazionali allo stesso tempo senza avere la capacità di percepire davvero noi stessi, di essere in grado di guardarci negli occhi, riconoscerci.

Sembra chiaro che gli italiani altro non possano fare che prendere consapevolezza del proprio assoggettamento, spesso autoimposto, acquisendo nuova forza per fuoriuscire da una condizione di minorità, eliminando la propensione al disfattismo, attenuando la preferenza accordata all’anti eroismo. La strada per ottenere maggiore consapevolezza di quello che siamo e, soprattutto, di quello che potremmo essere, è ostacolata solamente dalla nostra cecità, così oscura da non permetterci di distinguere, scorgendone solo la sagoma, gli amici dai nemici. Allo stesso tempo essa è però rivelatrice a tal punto dello spaesamento e della perenne labirintite del paese da farci sperare con Piero Gobetti nella reazione, auspicando “che ci sia chi avrà il coraggio di levare la ghigliottina, che si mantengano le posizioni fino in fondo”, chiedendo “le frustate perché qualcuno si svegli, il boia perché si possa vedere chiaro”. Con la testa incastrata tra la lama e la vita, ci renderemmo improvvisamente conto del fatto che essa è ancora attaccata al resto del corpo. Una fantasia, un sogno irrealizzabile sarebbe quello di divenire consapevoli dei propri mali senza che ci siano altri a condannarci a morte per averli lungamente perpetrati; prendere invece coscienza della grave infermità che ci affligge e, convalescenti, rimettersi pazientemente in salute, aggiustare la propria postura attraverso quotidiano impegno, sarebbe una soluzione preferibile e il primo passo dell’unica strada percorribile per cambiare sé stessi e l’Italia.

In una nazione ignota a sé stessa, ignara della sua (in)esistenza, tardiva nelle sue resipiscenze, molti italiani sono quindi accomunati da un tragico destino: morti ancor prima di morire trascorrono gran parte della propria vita a cercare di comprendere i mali dell’Italia, prima responsabile dello stato derelitto in cui riversa, perché “l’Italia non è serva degli stranieri, ma de’ suoi”. Così Carlo Cattaneo, tra i più importanti teorici risorgimentali, muore in solitudine l’anno prima della breccia di Porta Pia; Ippolito Nievo partecipa alla spedizione dei mille guidata da Garibaldi, e nello stesso anno muore in un naufragio nel mezzo del mar Tirreno mentre era in viaggio dalla Sicilia verso il continente; Piero Gobetti muore esule a Parigi in seguito a complicanze dovute ai ripetuti pestaggi subiti dalle squadre fasciste. Tre italiani che hanno saputo osservare l’Italia, scandagliarne le molteplici sfaccettature, entrare nelle pieghe della storia e farsi parte attiva dello scontro, non venendo mai meno all’impegno della lotta con pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà, non accettando compromessi più o meno storici, spingendosi oltre la palude che inabissa ogni speranza e atrofizza ogni slancio, oltrepassando quel guado in tragica solitudine, provando a scorgere, al di là di esso, un’Italia diversa: forse migliore, forse solo più libera.

Solamente nell’abisso de’ suoi mali può concepire il popolo della persuasione de’ suoi diritti che ancora non ha. […] Fra le sventure il nostro popolo ha raccolto due tesori: un tesoro d’odio; e lo deve al nemico stolto e feroce, che non seppe adoperar la vittoria se non a farsi aborrire: un tesoro di fiducia; e lo deve a sé medesimo, perché sa quanto ha potuto e quanto può

Carlo Cattaneo, Una teoria della libertà

Proprio su queste ultime parole sono impostati i lavori che animano questa bimestralità. Nel tentativo di sondare la coscienza italiana ci siamo imbattuti in questioni senza tempo e dibattiti contemporanei, problemi eterni e tentativi (mal)riusciti di fare l’Italia e gli italiani. Di fronte ad un passato che ci obbliga a evidenziarne le mancanze, proviamo a pensare ad un futuro, eterno presente, latore di maggiore consapevolezza e più radicata appartenenza.

Esemplare è l’articolo firmato da Sophia Grew sulla città di Trieste, città di confine tra l’Italia e il mondo. Il viaggiatore che giunge in città ben si rende conto della sua ambiguità. Legalmente italiana, all’apparenza lo spazio pubblico è animato da una pluralità di appartenenze difficilmente eliminabili.

Matteo Mercuri si interessa dell’annosa questione della Morte della Patria e del ruolo svolto dai maggiori partiti antifascisti dopo la Seconda guerra mondiale, illustrando il dibattito tra due dei più importanti storici del Novecento italiano: Ernesto Galli della Loggia e Emilio Gentile. Sempre di uno storico si occupa Marco De Tommasi analizzando gli scritti di Mario Isnenghi sulla storia della nazione italiana, stracolma di fratture, incomprensioni e tensioni mai sopite, cercando di individuare la figura più adatta al loro superamento.

Cercare di comprendere la coscienza nazionale italiana significa non poter prescindere dal considerare il rapporto che l’Italia ha con il suo mare: lo fa Alessandro Andronico che ci parla delle problematicità di una relazione non sempre idiosincratica.

Scritto a quattro mani, l’articolo di Elisa Stella e Gaia Perego si occupa del fondamentale ruolo che ha sempre avuto, e che ha anche oggi, il patrimonio culturale artistico italiano nella formazione dell’identità nazionale, interessandosi di diversi momenti dalla proclamazione dell’Unità all’Italia Repubblicana. Tancredi Roncadin si concentra invece sui metodi, gli obiettivi e le difficoltà, numerose e radicate, dell’insegnamento della filosofia nei licei italiani di oggi. La sua riflessione si interroga sulle incomprensioni legate alla diffusione della disciplina, legandole logicamente alle più ampie problematiche del sistema scolastico italiano.

Siamo poi successivamente andati più a fondo cercando di comprendere il popolo dietro la nazione. I ragazzi del progetto di Substoria hanno studiato, analizzando fonti alternative, l’identità italiana degli emigrati dal suolo patrio, i quali hanno contribuito e contribuiscono a creare una certa idea di Italia. Jozef Taiana cerca di mostrarci un’altra Italia, una versione parallela di quella ufficiale, più nascosta e forse più autentica, prendendo in considerazione il progetto Viaggio in Italia di Luigi Ghirri. Raphael Grew, infine, ci mostra la valenza culturale e politica della tradizione calcistica italiana: contrapposizioni sportive che solo apparentemente sembrano immotivate sono invece giustificate dall’analisi del passato storico dei particolarismi che hanno attraversato l’Italia prima e durante la sua formazione.

Siamo andati alla ricerca di un’Italia che scorre parallela a quella ufficialmente propagandata. Abbiamo indagato campi di vario interesse cercando di trarne uno spirito che li accomunasse. Abbiamo percorso una strada che, fatta di svolte, punti ciechi e pericolosi incroci, ci conduca passo passo ad un’ampia veduta del mare dove la via percorsa si interrompe, sfociando, come tutti i fiumi, nel vasto orizzonte di libertà che una navigazione priva di paure, nostalgie e velleitarismi può offrire.

Bibliografia

Carlo Cattaneo, Una teoria della libertà, Einaudi, Torino

Piero Gobetti, La rivoluzione liberale, Einaudi, Torino

Stefano Jossa, Un paese senza eroi, Laterza, Roma Bari

Le città nascoste

Le città nascoste

Questa città che non si cancella dalla mente è come un’armatura o reticolo nelle cui caselle ognuno può disporre le cose che vuole ricordare.

Italo Calvino, Le città Invisibili

Nel famoso romanzo Le città invisibili, Calvino descrive una pluralità di città diverse, ognuna legata agli uomini che sono entrati in contatto con esse, ognuna espressione del ricordo e del desiderio dell’uomo, delle sue aspettative, delle sue domande e delle eventuali, possibili risposte. Queste città, così impossibili da sembrare reali, si sovrappongono e si mescolano l’un l’altra diventando una sola, costruendo una realtà composita e unitaria allo stesso tempo. Risulta evidente, però, l’impossibilità di indossare le lenti necessarie a riconoscere la complessità dimensionale della città, costituita da una totalità che individualmente l’uomo non riesce a cogliere, da un insieme di città nascoste l’una all’altra, che allo stesso tempo esistono e non esistono in base all’osservatore che le guarda.

All’interno dei Racconti Romani Alberto Moravia ci parla della capitale d’Italia nel secondo dopoguerra; una città ancora memore del disastro bellico. Dai personaggi protagonisti delle vicende narrate emerge un mosaico variegato della Roma popolare e moderna, un mosaico in cui, paradossalmente, manca Roma stessa. Non c’è alcuna descrizione della città storica e monumentale. Roma è i suoi personaggi: camionisti, bottegai, disoccupati, camerieri e truffatori sono inseriti in uno spazio ben descritto dall’autore, il quale cita strade, piazze e quartieri entro i quali i personaggi vivono e lavorano. Questa descrizione spaziale così accurata ci rende il senso, tuttavia, di un’esistenza quotidiana limitata ai confini rappresentati da queste stesse strade, le quali sono l’unica città di cui i personaggi fanno esperienza, al di fuori di esse c’è un altro mondo e, quindi, un’altra città che, per quanto simile, non è mai uguale a sé stessa. Questa città-mosaico composta da un’infinità di tasselli accostati l’uno all’altro esiste nella sua unitarietà solo per chi non la vive, per chi può osservarla da lontano e coglierne il disegno completo. In questi racconti Roma è in ogni piazza, all’interno di ogni bar e trattoria, ma è indissolubilmente legata all’esperienza soggettiva degli uomini che la abitano.

Elio Vittorini in Le città del mondo affronta un viaggio all’interno della sua Sicilia. Viaggio che tocca solo tangenzialmente gli innumerevoli agglomerati urbani della regione. La loro presenza è però costante all’interno dei dialoghi dei personaggi, sono per loro riferimento imprescindibile, ma quasi mai essi si addentrano nelle città per viverle in prima persona. Le città sono ignote, “intraviste, non visitate”, appartengono solo al mondo dell’immaginario e dell’immaginato: rappresentano le paure e le speranze dei personaggi, sono un sogno e un mito, l’orizzonte e il limite delle loro prospettive. Ancora una volta il miglior modo per comprendere a pieno cosa sia la città sembra essere l’individuazione della natura del rapporto creatosi tra essa e l’uomo, che la viva da vicino o la percepisca da lontano.

La letteratura contemporanea ha posto al centro della propria narrazione lo spazio cittadino, protagonista indiscusso delle vicende umane a partire dal XIX secolo. Tre dei più celebri romanzieri italiani del Novecento hanno sviluppato il tema della città evidenziando la sua complessità, dimostrando come la città non sia definibile dall’ampiezza delle sue strade o dall’altezza dei suoi edifici: “non di questo è fatta una città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del passato”. Una città è definita dal ricordo che l’uomo ha di essa, dalla sua soggettività che si mescola e si amalgama con quella degli altri uomini creando un’infinità di città, le quali sono inaccessibili e nascoste alle altre. Calvino ci aiuta ad entrare in questo mondo mettendo in risalto il tema della molteplicità della città, la quale è prodotta, prevalentemente, dalla relazione che l’uomo instaura con il suo spazio, quindi dalla soggettività del ricordo.

Rivolgendo l’attenzione verso pochi esemplari romanzi italiani si comprende in modo evidente come il racconto di una città, in fondo, nulla è se non il racconto degli uomini che la abitano, la attraversano, la immaginano e, soprattutto, la ricordano. Le città sono il centro dell’attività umana: senza l’uomo, senza la memoria che gli uomini ne hanno, senza la capacità di inserire all’interno dello spazio urbano quei ricordi che, congiunti, formano la nostra intera esistenza, esse diventano vuote, insignificanti. La mancanza della possibilità del ricorso all’oblio crea perspicuamente una città diversa da quella che si presenta ai nostri occhi: trasfigurata e decostruita dal nostro passato, essa assume sembianze indicibili all’altrui percezione, la quale si fonde con la quotidiana abitudinarietà del percipiente, in una costante commistione tra l’imprescindibile realtà spaziale e l’ineliminabile ricordo ad essa legata.

È quindi lecito chiedersi cosa sia la città, o se sia possibile definirla, ora che abbiamo evidenziato la sua molteplicità? Ha senso descrivere una città quando le definizioni sono potenzialmente infinite? Ha senso definirla per come la percepiamo soggettivamente, consapevoli della sua mutevolezza e molteplicità.

Cos’è, quindi, la città se non la rete di fili invisibili che ci legano alle persone con le quali condividiamo l’esistenza? Fili che si intrecciano con il nostro passato e con il ricordo delle persone che ad esso appartengono. La città: cimitero delle nostre speranze passate, fitta rete delle relazioni presenti, diventa il luogo, infine, dove coltiviamo il nostro futuro, dove il costante confronto con la sua fisicità contribuisce al processo di creazione della città stessa: un deserto e una rete sviluppata su diversi piani temporali, infinita, impalpabile, soffocante, sempre e solamente una città privata, nascosta a sé stessa.

Anche a Raissa, città triste, corre un filo invisibile che allaccia un essere vivente a un altro per un attimo e si disfa, poi torna a tendersi tra punti in movimento disegnando nuove rapide figure cosicché a ogni secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa d’esistere.

Italo Calvino, Le città invisibili

Il primo numero della Rivista di Sottosuolo è dedicato alla città, spazio della nostra esistenza, considerata nei suoi diversi aspetti, nelle diverse forme che ha assunto nel passato, che assume nel presente e che potrebbe assumere nel futuro.

Jozef Taiana compie un viaggio tra lo spazio e il tempo approfondendo il tema del flâneur, passeggiatore accorto che si muove tra la folla indistinta di viaggiatori di viaggi comuni, e del ricordo, il quale solo ci permette di vedere realmente la città che abitiamo.

Gaia Perego ci parla invece di una città lontana nel tempo, nascosta da millenni di storia e riportata alla luce dagli archeologi: Uruk, odierna Warka in Iraq, paradigma di una città che va ben oltre la sua spazialità, che si caratterizza per le interazioni sociali che influenzano i suoi abitanti. 

Maria Pia Ascoli ci riporta la Milano che Alberto Rollo descrive in Un’educazione milanese, una città che appartiene al passato dell’autore e che risiede solo nel ricordo di una giovinezza lontana, nell’idea di una Milano che non si è mai realizzata e che deve confrontarsi con la sua versione attuale, modificata nello spirito così come nella forma.

Forma che è in perenne cambiamento: nel nostro percorso trovano spazio anche slanci verso il futuro di una città in continua ridefinizione: ce ne parla il Professor Gabriele Pasqui intervistato da Matteo Mercuri sul tema della riqualificazione urbana dei grandi scali ferroviari a Milano.

Altro modo per parlare della città, forse, è non parlarne affatto, riferendosi invece all’esperienza abitativa di chi dalla città si è allontanato, come fa Lorenzo Molinari descrivendo le capanne della filosofia, rifugi isolati dove Heidegger, Wittgenstein e Thoreau hanno abitato per lunghi periodi della propria vita avulsi dalle città, luogo in cui gli uomini vagano “distratti e smarriti” privi di un sentiero.

Carola Visca ci parla al contrario di una città che impedisce la fuga, che cela ogni via d’uscita: la Ravenna rappresentata nelle scene di Deserto rosso di Michelangelo Antonioni, una città avvolta dal fumo delle fabbriche, in cui la protagonista si aggira spaesata, inquieta e incapace di sconfiggere la solitudine. La Ravenna industriale descritta da Antonioni non solo è nascosta da una nebbia disorientante ma è simbolo dell’incomunicabilità provata dagli uomini che la abitano.

I diversi contributi che verranno qui pubblicati rispecchiano le sensibilità e i diversi interessi degli autori. Tutti sono però attraversati, nella loro specificità, da un filo rosso che li accomuna e li lega tra loro: l’esistenza di una città che, solo all’apparenza, si presenta unica e indivisibile, ma che si rivela, in realtà, caratterizzata da un’inevitabile molteplicità. Sembra quindi legittimo poter parlare di una città nascosta che, in ogni tempo e in ogni luogo, è definita maggiormente da ciò che non si vede.

Bibliografia

Dino Buzzati, Un amore, Mondadori, Milano, 2023

Italo Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano, 2022

Beppe Fenoglio, I ventitré giorni della città di Alba, Einaudi, Torino, 2015

Alberto Moravia, Racconti romani, Bompiani, Milano, 1977

Jules Verne, Parigi nel ventesimo secolo, Feltrinelli, Milano, 2023

Elio Vittorini, Le città del mondo, Bompiani, Milano, 2021