Protestare ovvero smettere di tacere

Ci è stato rimproverato, e noi siamo i nostri primi accusatori, d’aver creato una rivista troppo astratta; una rivista che, alla fine, non parla di nulla. Parole altisonanti, fiumi di inchiostro e qualche albero abbattuto per poi, infine, tacere o, ancora peggio, come disse un innominabile saggio, parlare non dicendo, tacendo anzi ciò che tacere non si dovrebbe. 

Leggendo alcuni, non tutti, degli articoli pubblicati, un amico sincero ci guarderebbe negli occhi e, cercando le parole più adatte e inoffensive, perché comunque siamo molto permalosi, cercherebbe di farci notare la nostra inconsistenza. I poeti direbbero: “Che asciugo!”, ma noi siamo gente che viene dalla strada, che vive con il popolo, quindi ci contestano incerti: “Forse qualcosa di meno decadente sarebbe più appropriato?”. Popolo forbito, il nostro! 

Ondeggianti tra la noia e la paura di mostrarsi annoiati siamo risultati pallidi, trascurabili, financo invisibili e, ammetterei, dimenticabili. Ma come? Non hai letto il nostro articolo sul circo femminile prussiano che gira e gira e non va mai da nessuna parte? (ah già, dimenticavo, sono tutte donne ebree, ma rigorosamente antisioniste). Oppure dai, l’articolo quello sulla città che si vede ma non c’è, che c’è ma non si vede; quella città inventata, invisibile, nascosta, immaginaria, scomparsa; quello l’avrai letto! Ah, no? Sicuramente ti sarai dimenticato di farlo. Chi ti biasima? Avrai avuto cose più importanti da fare. Però l’altro non puoi essertelo perso! Ma come non lo ricordi? Quello sull’Italia! (e che cos’è?) Quello sull’Italia a metà tra il Carso e l’Italia? (aspetta, cosa?) Ma sì, quello sull’Italia che è morta, e poi è tornata, e poi di nuovo va e ritorna? (come no!) Quella dove si insegna male filosofia. (adesso ho capito!) Visto? Qualcosa l’hai letto; c’è ancora speranza per noi. 

Tutto da buttare, penserà il nostro lettore; prendere anche il poco di buono che abbiamo creato e gettarlo a mare; chiudere i battenti e dichiarare bancarotta. Non siamo però così sprovveduti: aver coscienza delle proprie mancanze non può giustificare disfattismo, indolenza e piagnucolii compassionevoli. Se nel passato abbiamo preferito non esprimerci chiaramente, chiamando le cose con il loro nome, adottando invece posture e atteggiamenti ondivaghi e ignavi, non possiamo ora rannicchiarci nelle nostre spalle e rimpiangere, senza ragioni, di non aver neanche provato a cambiare le cose; perché tutto si risolve in questo: voler cambiare le cose e trovare il coraggio di ammetterlo, ancor prima di farlo. Nessuna andata a Canossa, quindi; o meglio, ci andiamo, ma noi siamo già lì, siamo Canossa stessa, perché non c’è nessuno a cui chiedere perdono se non a noi stessi; a quella parte di noi che ha sempre desiderato fuoriuscire, che ha sempre saputo su quale fronte combattere, e che noi abbiamo sempre contenuto e represso favorendo il ragionamento speculativo all’azione creatrice, l’approfondimento sterile alla critica del concreto e del materiale. 

Ci siamo lasciati, qualche mese fa, parlando di nomadi contemporanei, della nostra condizione peregrina nella società di oggi; in costante movimento, inquieto e ansioso, cerchiamo un approdo che sappia riempire l’incolmabile vuoto dell’esistenza, condizione a cui sentiamo di dover porre rimedio.

Ci siamo lasciati parlando di un movimento incessante e istintivo verso un altrove ricco di eccessive aspettative e di disperate speranze, con la consapevolezza che questo altrove, in fondo, esiste solo nella nostra testa. 

Ci siamo lasciati pronunciando parole che non sapevamo ci avrebbero aiutato nella ridefinizione della strada che questa rivista ha deciso, dopo lunghe discussioni, di perseguire convintamente. Non ci eravamo mai spinti, se non con pallide e ben celate citazioni e dichiarazioni d’intenti, là dove si è obbligati, per dovere, a prendere una posizione che fosse congruente con il nostro sentire collettivo. I numeri pubblicati finora sono stati caratterizzati dalla paura, o mancanza di coraggio, d’esprimere una certa idea di mondo che non solo si avverte come vera, ma necessaria ed urgente. La nostra redenzione, determinata tutt’altro che da una riscoperta appartenenza partitica, si realizza, e se ci si guarda attorno ce ne si accorge facilmente, in un momento in cui un numero sempre maggiore di realtà associative, politiche e sociali, stanno accorgendosi dell’inevitabile esigenza di affermare idee in grado di smuovere le persone a partecipare, interessarsi, schierarsi ed essere partigiani. Nel clima di rivoluzione sociale, economica, culturale e geopolitica che stiamo vivendo, ci siamo convinti di dover agire e, per evitare d’essere dimenticati nello spietato oblio della storia e del tempo, di dover vivere, quindi di scegliere, andando oltre la creazione di una rivista intellettualistica ed esoterica. Abbiamo peccato di non aver mai davvero scelto da che parte della barricata stare; forse perché non sapevamo esistesse, forse perché non volevamo vederla o non ne eravamo capaci. Ma l’elefante inizia a muoversi e le pareti della stanza tremano al suo solo respiro, e per noi è impossibile rimandare oltre la decisione che troppo a lungo abbiamo deciso di non affrontare. Pena, la condanna a morte per «associazione per non delinquere». Scegliere d’essere critici, non solo problematizzando la realtà, ma esprimendo poi un’opinione a riguardo; scendere nell’arena per combattere con le uniche armi di cui ora possiamo disporre, oltre alla nostra incrollabile volontà di determinare il nostro destino, ovvero le nostre parole, non solo è per noi doveroso, ma è necessario alla nostra stessa sopravvivenza. Si dirà che è poco, che è niente; ma noi crediamo nella forza che le parole conservano, come i semi di cui si apprezzano i frutti solo dopo anni e decenni. Le rivoluzioni non iniziano con i fucili, ma con le parole. E noi siamo pronti a parlare! 

Quale direzione prendere allora? Di che parlare? Semplicemente ciò di cui abbiamo già parlato, ciò che già avevamo individuato, senza però saperne cogliere le reali potenzialità, consapevoli ora della maggiore responsabilità delle parole che pronunciamo, indirizzate all’unico obiettivo realmente degno dei tempi che corrono: evertere. Altrimenti cosa stiamo qui a fare? Abbandonare quindi categorie vetuste e marcescenti, anche a costo di diventare i mostri che, nel chiaroscuro tra il vecchio e il nuovo, uccidono i venerandi rispettabili padri e aprono la strada al diverso. 

I temi che già abbiamo affrontato (La città, La coscienza italiana e Nomadi) acquisiscono un valore diverso da quello che avevamo loro attribuito, di certo in modo meno sorprendente di quanto potessimo immaginare. Da spunti di riflessione intellettuale diventano tentativi malriusciti di quel che solo ora cerchiamo di fare, e punti di partenza per parlare più scientemente di attualità, ponendoci al centro della tempesta della storia, dove chi non sceglie, muore, o peggio, vive una vita che appartiene ad altri, perché decisa da altri. Parleremo insomma di quel che parlano tutti, non trascurando elementi e caratteristiche indotte, cioè marginali e accessorie; valorizzando quel che si cela oltre l’apparenza e la truffaldina superficie delle cose; quel che giace nel Sottosuolo. Nel prossimo futuro la necessità d’essere urgenti ci porterà quindi ad affrontare temi attuali e convergenti con: la città di Milano, incarnazione del malato rapporto creatosi tra centro e periferia e tra uomo e potere; la problematica identità italiana, mai definita, come occasione per imparare a riconoscersi in un passato, una storia e una traiettoria futura; la condizione odierna di spaesamento, vissuta in particolar modo dai giovani che più di tutti subiscono le conseguenze delle crisi che da vent’anni si susseguono, e che, al contempo, vengono accusati di non fare abbastanza da chi le suddette crisi le ha generate. Costituire una voce di critica, di sferzata contrapposizione nei confronti del potere costituito, della consuetudine e del vecchiume che ci circonda; in sostanza, d’essere una voce di protesta: questo sarà la rivista di Sottosuolo d’ora in avanti. Non a caso abbiamo deciso di imboccare questa nuova direzione principiando dall’omonimo tema, con un taglio problematico e provocatorio: Ma quale protesta?

Questo nuovo tema vuole essere insieme apripista e manifesto di quel che siamo e che vogliamo diventare. A nostro parere non c’è modo migliore per iniziare a protestare se non con un tema che metta in luce la questione della difficoltà della protesta collettiva al giorno d’oggi. I nostri interrogativi sono nati dalla costatazione della inesistenza della protesta pubblica e, quando esistente, della sua inefficacia e inutilità; volendo, parlando di proteste, contemporaneamente protestare noi stessi, questa è anche una critica verso quei vecchi cattivi maestri che ci hanno insegnato a protestare per le cose sbagliate, o ancora peggio, che ci hanno ripetuto fino alla nausea, trasmettendoci disillusione e nostalgismo inerte: ma cosa protesti a fare!? Infatti non cambia mai niente, e le generazioni sorvolano passive la società che sfrutta gli uomini, li deride, li calpesta, li costringe nella loro esistenza di talpa.

Ma quale protesta? è una domanda retorica a cui non si può che rispondere retoricamente. Quale protesta? Quella che non c’è, ma che pensiamo debba esserci. Se avessimo impegnato il nostro tempo a sviscerare la questione dell’inesistenza del dissenso vissuto collettivamente, senza poi prendere una vera posizione a riguardo, superando il problema da noi stessi individuato per prendere una strada palingenetica, generativa, saremmo ricaduti nei nostri vecchi errori. Non più quindi solo analisi; non più solo distruzione; ma rinascita, riaffermazione dei criteri che guidano la vita dell’uomo, degli scopi verso cui essa va diretta. È forse questo il primo vero motivo di protesta che dovrebbe unire, iniziando da questa rivista e da tutte le realtà simili alla nostra, nella riaffermazione della volontà collettiva di partecipare al cambiamento, non più solo di osservarlo da lontano e subirne le conseguenze. 

Uomini del Sottosuolo, unitevi! Marxianamente parlando. Anche questa sembra retorica, ma le catene ci sono e della libertà, araba fenice, tutti ne parlano ma nessuno la vede. Oggi l’uomo del Sottosuolo si risveglia dal torpore che ha annichilito menti e coscienze per lungo tempo. Per crescere serve spazio, e noi abbiamo bisogno di più spazio, quello che ci è stato negato dagli strati di terra con cui siamo stati coperti e con cui è stata decretata la nostra morte. O ce lo rendono, o ce lo prendiamo. 

Per tornare là fuori, insieme gli uni con gli altri, e affermare un’idea che sia una, covando segretamente persino il desiderio di cambiare il mondo, c’è bisogno di qualcosa che unisca, che accomuni le sofferenze e le aderga al di sopra di noi stessi, diffondendo una concezione di vita, una filosofia, una grande ambizione, una fede, che ci permetta nuovamente, come l’uomo ha sempre fatto nella storia, di vivere per uno scopo superiore e, benauguratamente, anche di morirne.