da Marco De Tommasi | Giu 6, 2024 | La coscienza italiana
Il tema della coscienza nazionale italiana è molto complesso. La storia d’Italia è contraddistinta da tante fratture che hanno segnato il processo di costruzione di un sentimento nazionale. In Tragico controvoglia. Studi e interventi 1968-2022 – antologia di scritti che racchiude oltre sessant’anni di attività intellettuale – lo storico veneziano Mario Isnenghi ne individua alcune: i fatti di Bronte del 1860, il ferimento di Garibaldi sull’Aspromonte nell’agosto del 1862 e la breccia di Porta Pia del 20 settembre del 1870. A questi si aggiungono altri più tragici e destinati ad avere un impatto più duraturo nella memoria collettiva: la lotta al brigantaggio, Caporetto e la guerra civile del 1943-’45. Secondo Isnenghi, la storia italiana è intimamente tragica e puntellata da eventi fondatori traumatici. Nel dibattito pubblico, ancora oggi, questi sono fonte di accese discussioni e rinsaldano vecchie inimicizie. Gli anni passano, ma i vecchi rancori restano. Dal Regno alla Repubblica, l’Italia è stata lacerata da antagonismi e tensioni fra parti e controparti. La riconciliazione – sostiene Isnenghi – non dovrebbe essere con gli altri, ma con una storia d’Italia di cui gli altri fanno parte. Questa posizione è ampiamente condivisibile, ma apre molti interrogativi: da chi deve partire questo processo di riconciliazione? Chi si deve fare carico di questo: devono essere gli storici a occuparsene o è una faccenda che riguarda prettamente la politica?
Ricomporre le fratture provocate da un episodio tragico non è affatto facile. La tragedia, come ci spiegano i greci e gli studiosi delle tragedie greche, si dà quando due parti che si contrastano hanno entrambe ragione. La tragedia si verifica, dunque, quando lo scontro fra due polarità è incomponibile. Un esempio è la vicenda narrata nell’Antigone di Sofocle. Il nuove re di Tebe Creonte ordina con un editto che il corpo di Polinice, considerato un traditore, rimanga insepolto. Ma la sorella Antigone disobbedisce al decreto del re tebano per dare degna sepoltura alle spoglie del fratello, appellandosi alle leggi divine che impongono pietà per i morti. Il gesto coraggioso di Antigone sfida il potere di Creonte che non vuole concedere la sepoltura per motivi politici. Alle ragioni più evidenti della giovane Antigone, spinta nel suo nobile atto da motivazioni affettive e religiose, ci sono quelle meno evidenti, ma non meno importanti, di Creonte. La città e lo Stato hanno le loro prerogative, non a caso Hegel, a inizio Ottocento, vide dietro questo contrasto tra la giovane eroina e il re di Tebe il conflitto tra le esigenze della famiglia e quelle dello Stato.
Un’altra vicenda esemplare che riconduce al significato primigenio e più drammatico della tragedia è rappresentata dai fatti di Aspromonte. Siamo nel 1862, l’Italia è unita da solo un anno e hanno vinto i monarchici. Questi vorrebbero mettere idealmente fuori legge i repubblicani, i quali però hanno pensato l’Italia. L’Italia, è bene ricordarlo, è figlia di Mazzini e Garibaldi. Se il primo fu la mente dell’unificazione nazionale, il secondo fu l’uomo d’azione che la realizzò. A capo di qualche migliaio di volontari, l’eroe dei due mondi partì alla volta di Roma per scacciare Pio IX e annettere la città alla neonata nazione. Contro di lui e le sue truppe si mosse l’esercito regolare italiano, inviato dall’allora Presidente del consiglio Urbano Rattazzi. L’esercito del Paese che aveva fondato sparò a Garibaldi, che venne ferito ad una gamba e fatto prigioniero. Ci si potrebbe chiedere: potevano evitare di sparargli? Forse sì, ma il governo italiano voleva prevenire una possibile reazione da parte della Francia, che aveva impegnato truppe a difesa di Roma in accordo con il Papa. Questo portò allo scontro in Aspromonte, dove le forze italiane, nonostante Garibaldi fosse un eroe nazionale, aprirono il fuoco sulla sua colonna di volontari.
Questo episodio provocò una spaccatura significativa nella coscienza nazionale italiana. A pochi mesi dall’unità del Paese, due parti dello stesso si confrontarono armi alla mano. Lo stesso avvenne, ma in modo molto più lungo e cruento, tra il ’43-’45 durante la lotta di liberazione: fascisti da una parte e antifascisti dall’altra. La guerra che si combatté in quegli anni fu una vera e propria guerra civile, che vide contrapposti da ambo i lati degli italiani. Le violenze e le atrocità che si verificarono sono rimaste impresse nella memoria collettiva. Il dolore scaturito da eventi traumatici crea ferite che sono dure a rimarginarsi. Di questo ne era ben consapevole Nathaniel Hawthorne che nel suo celeberrimo testo La lettera scarlatta scrisse: “è insito nella nostra natura un dono meraviglioso e misericordioso, grazie al quale non comprendiamo sul momento l’intensità di quanto soffriamo, ma lo possiamo valutare solo più tardi, dalle tracce che la sofferenza lascia”.
La sanguinose contrapposizioni interne che hanno caratterizzato la storia d’Italia hanno provocato delle ampie fratture nel tessuto sociale nazionale. In modo particolare la guerra civile del ’43-’45 ha lasciato il segno più evidente e ancora oggi torna a far parlare di sé. La politica, lungi dal perseguire un programma di pacificazione, utilizza questa ferita ancora sanguinante per rinnovare la polemica. Dopo tanti anni di contrasti serve arrivare a una riconciliazione, ma pensare a chi può davvero operarla è cosa difficile a dirsi. Quando nella coscienza d’individuo si verificano degli eventi traumatici, spesso il singolo si affida a un percorso di terapia per affrontare e risolvere le lacerazioni lasciate dagli eventi dolorosi. Ma quando si guarda a una coscienza collettiva, chi può davvero offrire gli strumenti per riconciliare una storia conflittuale e tormentata?
La risposta non è semplice e sicuramente non può essere univoca. Allo stesso tempo, però, se non è così immediato individuare chi possa compiere questo lavoro, può essere più efficace comprendere chi potrebbe contribuire al suo perseguimento. Le figure più adatte possono essere gli storici. Per quale motivo? Perché lo storico è la figura che più di tutte ha una cognizione approfondita del passato e può, con la sua conoscenza, giocare un ruolo determinante nel raggiungere una riconciliazione tra le parti. Partendo dal presupposto che lo storico deve essere superpartes e nel proprio compito deve sempre essere interessato alla verità dei fatti, esso nondimeno può contribuire a dare avvio a una presa di consapevolezza e, di conseguenza, a un riconoscimento della conflittualità e tragicità della storia del Paese. Questa azione dello storico, che si può definire enzimatica, deve essere proseguita dalle istituzioni al fine di arrivare, una volta per tutte, a una vera riconciliazione che – come spiega Isnenghi – “non è con gli altri, ma con una storia d’Italia di cui gli altri fanno parte”. Sì, perché la storia italiana dal Regno alla Repubblica è fatta di parti e controparti che sono state protagoniste di molteplici tensioni e antagonismi. Se non si fa questo, il rischio – avverte Isnenghi – è quello di “rendere senza significato anche quella parte della storia collettiva di cui, sul piano personale, ciascuno di noi può maggiormente sentirsi discendente o parte”.
Lo spunto per questa riflessione sorge da un’osservazione del tempo presente, dove il dibattito politico è ancora infiammato dalle polemiche su queste vicende. In modo particolare la questione fascismo e antifascismo scalda gli animi e genera profonde tensioni. Questo dimostra come la situazione sia lontana dall’essere risolta. L’unico modo per riappacificarsi con quel periodo tragico sta nella volontà collettiva di comprendere quei tempi e le scelte dei suoi protagonisti. La tragicità di quello scontro, che vide contrapporsi italiani contro altri italiani, stava proprio in questo suo carattere di conflitto interno. Pur rimanendo un contrasto fondativo della nostra identità nazionale, dopo tutti questi anni serve riconciliarsi con questa storia conflittuale. L’unico strumento che può davvero tornare utile è la memoria. Strumento meno accomandante dell’oblio, questa permette di ricollegarsi con quei fatti e capire le ragioni che hanno portato molti cittadini fascisti e antifascisti a sostenere una causa piuttosto che un’altra. Se non c’è comprensione, c’è giudizio, e il giudizio divide e allontana. Per cogliere meglio il significato di una storia collettiva così dolorosa, serve guardare con occhi lucidi al passato. Una vera e propria riconciliazione nazionale può partire solo da una consapevolezza precisa di cosa è successo, senza rimozioni, edulcorazioni e giudizi.
Bibliografia
Mario Isnenghi, Tragico controvoglia: studi e interventi 1968-2022, Dueville, Ronzani, 2023
Claudio Pavone, Una guerra civile: saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1994.
da Gaia Perego e Elisa Stella | Mag 30, 2024 | La coscienza italiana
“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
Costituzione della Repubblica Italiana, Art. 9
La questione della tutela e della valorizzazione dei beni culturali del nostro Paese occupa un posto di primaria importanza fin dalla stesura della nostra Costituzione, tanto da trovarsi proprio tra i suoi principi fondamentali, quasi un unicum tra le carte costituzionali europee. Già dalle poche righe di questo articolo e dalle parole accuratamente scelte si possono ricavare importanti informazioni: il termine Repubblica indica che il ruolo di promozione e di tutela coinvolge e responsabilizza qualsiasi istituzione della Repubblica, dunque non solo lo Stato, le province e gli enti pubblici, ma anche le organizzazioni private e soprattutto gli stessi cittadini, i quali vengono direttamente coinvolti nel ruolo di promotori dello stesso patrimonio artistico. Altro termine interessante da analizzare è Nazione. Definire il patrimonio storico e artistico come proprietà di quest’ultima connota un forte carattere identitario a prescindere dalla forma di governo e dalle limitazioni territoriali: i beni culturali nazionali, in base alla legge italiana, non cessano di far parte del nostro patrimonio quando si trovano all’estero.
Ad essere coscienti di tale ruolo di primaria importanza giocato dal patrimonio artistico italiano, simbolo di una comune coscienza nazionale, non sono stati solo i Padri Costituenti. Infatti, fin dalla fondazione del Regno d’Italia nel 1861, si pensò a come porre il patrimonio artistico sotto il controllo di un’autorità centrale a cui fosse affidata la cura e il restauro dei monumenti e, contemporaneamente, si cercò di portare sotto l’egida statale oggetti di interesse comune che, fino a quel momento, erano rimasti nell’ambito della proprietà privata. L’intento, dunque, era quello di sviluppare una comune coscienza nazionale attraverso una progettualità identitaria nel processo di valorizzazione e tutela del patrimonio artistico. In tal senso vennero presi una serie di provvedimenti: in Emilia Romagna, il governatore provvisorio delle ex Legazioni pontificie Luigi Carlo Farini istituì nel 1860, in accordo con il Ministro dell’Istruzione Pubblica Antonio Montanari, la Regia Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna. Lo scopo era quello di dare rilevanza pubblica e di registrare ufficialmente quei luoghi “ove esistono le raccolte di antichi documenti” e scegliere quelli che “possono concorrere ad illustrare la Storia Patria”, cioè quelli che hanno valore di bene culturale. Tali interventi costituiscono il nucleo fondante dei Musei dell’Emilia-Romagna.
Per il neonato Regno i monumenti nazionali furono un importante strumento propagandistico per l’affermazione del potere laico su quello ecclesiastico (dotato di un patrimonio culturale e artistico con cui era difficile competere) tanto che con un decreto del 1873 fu concesso allo Stato anche il diritto di espropriazione di edifici religiosi per scavi archeologici. Uno dei personaggi che più si occupò di esercitare il controllo dello Stato sui monumenti storici fu Cesare Correnti, ministro della Pubblica istruzione. Su sua iniziativa furono presi una serie di provvedimenti in questa direzione, come, ad esempio, la compilazione di una lista di monumenti da dichiarare nazionali, e che quindi furono acquisiti dallo Stato. Furono principalmente due gli immaginari su cui l’Italia postunitaria tentò di proiettare il patriottismo degli italiani: in un primo momento la memoria dei martiri della libertà italiana, rappresentata in tantissimi e diversi monumenti, successivamente l’antica Roma.
Le missioni archeologiche italiane in Libia di inizio Novecento si accompagnarono a una nuova assimilazione retorica dell’Italia con Roma, che servì a preparare il terreno per la conquista militare e politica della regione: i primi archeologi italiani, sotto la direzione di Federico Halberr, arrivarono in Libia già nel 1910, per ritirarsi dalla regione proco prima dello sbarco delle truppe italiane nel 1911. Questa nuova definizione dell’italianità, portata avanti soprattutto dai nazionalisti guidati da Enrico Corradini, si contrapponeva con le posizioni dei futuristi, capeggiati da Filippo Tommaso Marinetti, che nel loro manifesto, pubblicato nel 1909, avevano affermato: “vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquari”. Nonostante le posizioni dei futuristi, però, la guerra italo-turca del 1911-1912 aprì una nuova stagione in cui le sorti dell’archeologia si sovrapposero a quelle della colonizzazione. Durante questo periodo, l’antico contribuì al processo di legittimazione della conquista militare e, contemporaneamente, favorì una nuova sensibilità dell’opinione pubblica in patria nei confronti delle vestigia romane e consacrò in una dimensione mitica la brutalità del contesto bellico. La nuova definizione della coscienza italiana si realizzò attraverso una narrazione del mondo arabo basata su cliché dell’orientalismo e contrapposta a un mondo romano visto invece come portatore di creatività e ingegno. Il progetto politico della Libia si intrecciava così ad una presunta liberazione delle vestigia antiche, che, secondo i colonizzatori, portavano i segni di un lungo disinteresse da parte dell’Impero Ottomano.
Dopo la marcia su Roma del 1922, l’atteggiamento corradiniano nei confronti dell’antico venne ereditato dal fascismo, che adottò la romanità come modello con cui confrontarsi sia in patria che nelle colonie. In Italia, le campagne di scavo e di restauro condotte nell’Urbe riportarono alla luce un patrimonio simbolico e ideologico antico cui dare nuovi significati. Nelle colonie, la pervasività dell’archeologia nel supportare il progetto mussoliniano, ai fini di rigenerazione della coscienza nazionale italiana, si giocò sull’ideale della sempiterna pax romana. Roma si sostituì ad Atene come custode della civiltà europea, mentre la trasmissione della cultura latina, nuovamente illuminata dal fascismo, fu il mezzo attraverso il quale realizzare questo passaggio di testimone.
La musealizzazione delle antichità fu parte integrante di questo processo, come spiegò il soprintendente ai monumenti e scavi di Rodi Luciano Laurenzi in occasione della presentazione dell’attività svolta dall’Istituto storico-archeologico FERT nel 1934: “se si vuol dare ad un popolo la coscienza della sua civiltà è necessario mostrargli i monumenti che l’hanno creata, le testimonianze delle lotte sostenute per conquistarla”. A questo contribuirono non solo mostre e musei, ma anche l’uso massiccio di nuove tecnologie come la fotografia, che sovente immortalava soldati e vestigia, creando una forte connessione tra il passato e il presente.
Alla nuova coscienza italiana fascista, dunque, contribuì largamente l’archeologia, in quanto offrì al regime un patrimonio culturale che permise la mitizzazione del passato e accrebbe la contrapposizione con l’altro e, allo stesso tempo, fornì spazi e momenti opportuni per la diffusione della nuova italianità al grande pubblico.
Il fil rouge che lega i tre periodi storici – quello dell’età liberale, dell’Italia fascista e del secondo dopoguerra – è la formazione, fittizia o meno, di una coscienza italiana che passa anche attraverso il riconoscimento e la tutela dei beni culturali. Il passato sembra quindi conoscibile solamente attraverso una narrazione che deve essere priva di revisionismi e avvicinarsi quanto più possibile alla realtà storica. Solo così può crearsi un legame virtuoso e felice tra la storia di un territorio e i suoi abitanti e un riconoscimento individuale e collettivo di chi siamo stati e di chi saremo.
Bibliografia
Enrico Bottrigari, Cronaca di Bologna, vol. III, a cura di Aldo Berselli, Zanichelli, Bologna, 1960-1962
Marcello Barbanera, Il sorgere dell’archeologia in Italia nella seconda metà dell’Ottocento. In: Mélanges de l’Écolefrançaise de Rome. Italie et Méditerranée, tome 113, n°2. 2001. Antiquités, archéologie et construction nationale au XIXe siècle. Journées d’études, Rome 29-30 avril 1999 et Ravello 7-8 avril 2000. pp. 493-505
Cristiana Morigi Govi, Giuseppe Sassatelli, Daniele Vitali, Scavi archeologici e musei. Bologna tra coscienza civica e identità nazionale. In: Mélanges de l’École française de Rome. Italie et Méditerranée, tome 113, n°2. 2001. Antiquités, archéologie et construction nationale au XIX e siècle. Journées d’études, Rome 29-30 avril 1999 et Ravello 7-8 avril 2000. pp. 665-678
Massimiliano Munzi, L’epica del ritorno. Archeologia e politica nella Tripolitania italiana, L’Erma di Bretschneider, Roma, 2001
Marta Petricioli, Archeologia e Mare Nostrum. Le missioni archeologiche nella politica mediterranea dell’Italia 1898/1943, Valerio Levi Editore, Roma, 1990
Simona Troilo, Pietre d’oltremare. Scavare, conservare, immaginare l’Impero (1899-1940), Laterza, Bari, 2021
Simona Troilo, Ruines de Libye. Le regard sur les antiquités dans la propagande coloniale italienne (1911-1937), in “Revue d’histoire culturelle, n.6, 2023, pp 1-23
da Alessandro Andronico | Mag 16, 2024 | La coscienza italiana
Aldo Moro, in una delle sue citazioni più famose, parlò di Mediterraneo ed Europa come due soggetti inscindibili tra loro, nell’espressione da lui usata ricorda come “l’Europa intera è nel Mediterraneo”, sottolineando come nessuno, men che meno l’Italia, dovrebbe scegliere se appartenere all’uno o all’altra; ma per quale motivo Moro sentì il bisogno di esprimersi così decisamente riguardo al Mediterraneo?
Ai giorni nostri, ancor più che ai tempi della cosiddetta Prima Repubblica, è diventato imprescindibile trattare approfonditamente il Mediterraneo e la sua evoluzione per poter immaginare il futuro del nostro paese. Purtroppo ciò accade sporadicamente e in queste eccezioni difficilmente viene descritto adeguatamente il contesto geopolitico mediterraneo nel quale l’Italia si trova ad annaspare. Si tende a trattare superficialmente il Mediterraneo e le sue vicende, parlando sempre dell’Italia come soggetto passivo che subisce solamente, incapace di ritagliarsi un ruolo attivo e dinamico, un soggetto perennemente incompiuto che non riesce mai ad abbracciare fino in fondo la propria natura mediterranea; invece si cerca troppo spesso di accostarsi ed inserirsi in contesti lontani, geograficamente e idealmente, dalle necessità italiane, contesti narrati come vitali e imprescindibili per il futuro del paese anche se così non è. Da cosa nasce questa negligenza e distanza dal mare è ciò che desidero approfondire; nello specifico cercherò di spiegare, secondo ciò che ho potuto esaminare, quali sarebbero le cause storiche della distanza italiana dal suo mare. Per poter capire cosa sia oggi il Mediterraneo per l’Italia ho ritenuto pertinente parlare di un periodo storico specifico, definito da Egidio Ivetic nel suo Il Mediterraneo e l’Italia l’epoca della “Grande Italia”, che più di ogni altro sembrerebbe aver condizionato il rapporto tra il nostro paese e il mare.
Per comprendere meglio la dimensione ed il legame tra la “Grande Italia” e il Mediterraneo è necessario accennare brevemente a quali furono le maggiori influenze che di volta in volta hanno segnato quest’epoca della nostra storia nazionale. Ogni Italia, repubblicana, liberale, nazionalista o fascista che fosse, nel rapportarsi con il mare incontra e ha incontrato sul suo percorso i due soggetti che più di ogni altro hanno plasmato il rapporto della penisola con il Mediterraneo: Roma e Venezia.
Il peso specifico che queste due grandi città, che in differenti epoche fecero del Mediterraneo la loro ragion d’essere, hanno avuto sulla classe politica e sull’opinione pubblica italiana tra il 1908 ed il 1943, date convenzionali per identificare il periodo della “Grande Italia”, è stato enorme. Il primo accostamento tra l’idea di un’Italia geografica limitata ai confini riconducibili a quelli odierni risale alla Roma di Augusto; i romani, nati come potenza a vocazione prettamente terrestre, capirono in fretta come la posizione geografica della penisola italiana fosse ottimale per ottenere un dominio completo dell’intero Mediterraneo e si trasformarono in potenza anche marittima, riuscendo a raggiungere, ad oggi unici in questo, l’unità totale del bacino del Mediterraneo. Secoli dopo toccò a Venezia riscoprire a pieno questa dimensione mediterranea dell’Italia. La Serenissima più di ogni altra città marinara italiana e mediterranea visse il mare, propaggine della città e nucleo dell’esistenza dello “Stato da Mar” veneziano; l’impero mediterraneo veneziano non era solamente una pura e semplice necessità commerciale, bensì rappresentava molto di più, un’estensione dello Stato necessaria a proiettarne il potere in ogni angolo di quel mare. Non fu certamente un caso che proprio Venezia, maturata al fianco di Costantinopoli, riuscì ad ereditare quella dimensione marittima espressa da Roma, trasformando l’Adriatico in un “piccolo Mare Nostrum” esclusivamente veneziano, per secoli intoccabile anche da soggetti ben più potenti della città veneta. Con la scomparsa di Venezia svanì anche l’interesse per il mare per quasi un cento anni, e solo verso la fine del XIX secolo una riscoperta del Mediterraneo travolse il neonato regno.
La sconfitta di Lissa nel 1866 e l’apertura del canale di Suez l’anno seguente furono i due eventi che segnarono la rinascita del navalismo – inteso come propensione di una nazione al suo essere marittima – in Italia. L’Italia riuscì in parte a riscoprirsi. Nonostante il fallimento di Lissa fosse di modeste proporzioni venne immediatamente vissuto come una terribile sconfitta in termini emotivi e retorici di molto sproporzionati. Dopo un decennio di vera e propria avversione per il mare quel “disastro” divenne la spinta per risvegliare il navalismo italiano. L’avvicinamento al mare fu strettamente collegato alle nuove scoperte geografiche, all’esistente ordine internazionale e all’apogeo dell’imperialismo europeo; il navalismo è il presupposto ideologico all’imperialismo e non fu un caso che proprio in quel periodo l’Italia iniziò a muovere i primi passi verso una nuova politica di potenza, ponendo le basi della “Grande Italia”, grande più per retorica e invocazione che per realtà dei fatti. L’idea del dominio del mare raggiunse nel paese la sua massima espressione tra il 1908 ed il 1943, date non casuali; secondo Egidio Ivetic l’alba della “Grande Italia” andrebbe individuata con la prima rappresentazione del dramma La nave di Gabriele D’Annunzio, esternazione di quell’ardente desiderio di potenza declamata e ricercata nell’Adriatico e nel Mediterraneo; mentre il tramonto di questo “sogno” di dominio marittimo viene collegato all’affondamento della nave da battaglia Roma il 9 settembre 1943, durante il suo viaggio verso i porti anglo-americani in seguito alla firma dell’armistizio. La perdita della massima espressione della produzione cantieristica italiana segnò simbolicamente la morte di ogni aspirazione di dominio nel Mediterraneo.
Dal 1914 il mare, nello specifico l’Adriatico, divenne l’ossessione del Regno d’Italia; mare che più di ogni altro doveva ritornare italiano come ai tempi di Venezia. Il possesso dell’Adriatico avrebbe garantito un predominio economico, militare e politico su gran parte del Mediterraneo. Tuttavia il raggiungimento di tale obiettivo sarebbe derivato obbligatoriamente da uno scontro con l’impero asburgico e da un possibile scontro con i popoli slavi, i quali non nascondevano le proprie aspirazioni adriatiche. Il Mediterraneo, negli anni del primo conflitto mondiale, passò in secondo piano dato che il suo controllo era in mano agli alleati inglesi e francesi; durante il conflitto con Vienna l’Adriatico non vide quasi nessuna battaglia, rimanendo un fronte secondario. Dopo la resa austriaca e la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico, i timori italiani si avverarono con la comparsa dello stato jugoslavo, successore di Vienna in quel mare come rivale dell’Italia e erede dell’intera flotta asburgica, attaccata quindi dai reparti speciali italiani durante il passaggio di bandiera della corazzata Viribus Unitis al neonato regno. Nonostante il dominio italiano non fosse totale, Roma riuscì ad ottenere quantomeno un netto predominio sugli stati balcanici affacciati sull’Adriatico. Le promesse fatte dagli Alleati dell’Intesa all’interno del Patto di Londra non vennero mantenute, il controllo assoluto sull’Adriatico non si materializzò, suscitando l’indignazione dell’opinione pubblica italiana che valutava quello come un mare d’interesse vitale per il paese, ancor di più del Mediterraneo.
In seguito all’ascesa di Mussolini e del partito fascista, la volontà di dominio sul mare non mutò, anzi prese toni più accesi. Sebbene la situazione di tensione nell’Adriatico non si estinse completamente, il regime concentrò le sue attenzioni sul Mediterraneo, considerato, dato il precedente romano del “Mare Nostrum”, lo spazio naturale e storico del paese. La romanità invocata dal partito andava di pari passo con la mediterraneità del paese: questo mare doveva essere un’unica cosa con l’Italia fascista, la sua parte allargata da controllare direttamente o indirettamente. Il dominio del Mediterraneo tanto invocato da Mussolini era inimmaginabile, nella realtà non esisteva alcuna possibilità di espansione: Londra controllava Suez, Gibilterra, Malta, Cipro e la Palestina, oltre ad avere relazioni strette con le potenze minori mediterranee; Parigi dominava il Mediterraneo occidentale, il Libano e la Siria. Roma dal canto suo controllava il Mediterraneo centrale, esclusa Malta, e il Dodecaneso, ponendosi trasversalmente rispetto all’asse ovest-est di dominio inglese. L’invasione dell’Etiopia e la successiva crisi dei rapporti con l’Inghilterra furono quindi la logica conseguenza dell’impossibilità di espansione nel bacino del Mediterraneo.
La propaganda del regime spinse sulla necessità di creare una grande comunità imperiale nel “Mare Nostrum”, nella quale tutte le sponde del Mediterraneo sarebbero state, direttamente o indirettamente, sotto il controllo italiano. Molti dei territori da inglobare nell’Italia metropolitana rispecchiavano i possedimenti degli stati italiani nel 1750, con il Mediterraneo come fulcro del nuovo impero italiano. Il mediterraneismo fascista non era altro che un programma ideologico per preparare il popolo italiano a dominare, dall’alto della propria superiorità etnica e culturale latina, più declamata che realmente sentita, lo spazio mediterraneo. La guerra dal 1940 al 1943 fu un vero e proprio conflitto mediterraneo anglo-italiano, immaginato per anni ed infine esploso con l’ingresso italiano al fianco di Hitler. La drastica sconfitta della Marina italiana, tutt’altro che di secondo livello, aprì gli occhi e mise allo scoperto tutta quella fallimentare e pretenziosa retorica decantata per un ventennio.
In seguito al fallimento bellico e all’ingresso nella Nato il paese non volle e non dovette più occuparsi di quel mare. Il Mediterraneo cadde sotto il controllo anglo-americano, precludendo a Roma ogni possibilità di indipendenza navale. Tralasciando il fattore strategico-militare della sconfitta nella Seconda guerra mondiale, furono la stessa mentalità italiana e il rapporto con il suo mare a subire un colpo devastante: l’Italia, nel processo di rigetto e chiusura della pagina del fascismo, abbandonò la dimensione marittima, che troppo ricordava quella retorica di dominio e controllo del mondo mediterraneo tanto propagandata negli anni della dittatura. Qui sorse il problema che ancora oggi affligge l’Italia: parlare di un interesse nazionale italiano nel Mediterraneo crea e ha creato parallelismi, molte volte insensati, con l’imperialismo fascista. L’Italia ha deciso sin dalla nascita della Repubblica di vivere il Mediterraneo con una postura da attore ormai comprimario, destinato ad assecondare passivamente le scelte degli altri soggetti. Una piccola eccezione ebbe luogo tra gli anni 50 e 60, quando, grazie a personaggi come La Pira, Moro, Mattei e Fanfani il paese cercò di ritagliarsi un ruolo di dialogo e collegamento con il mondo mediterraneo, tentando di risvegliare l’Italia dal torpore e dalla passività. Tuttavia, dopo questa breve parentesi, si ritornò al punto di partenza, continuando a subire passivamente, anche a scapito dei propri interessi, l’evoluzione del Mediterraneo. La natura mediterranea venne messa da parte a favore di un tentativo di avvicinamento alla dimensione atlantica e mitteleuropea.
Ad oggi poco è cambiato, l’Italia rimane titubante ad accettare la propria natura mediterranea, ricercando invece l’appartenenza a contesti che solo parzialmente si accostano alle necessità italiane, non riuscendo a capire che la mutazione del contesto internazionale, con il lento disimpegno americano in diversi teatri, in parte anche da quello mediterraneo, darebbe la possibilità all’Italia di ritornare a vivere attivamente il mare da cui tanto dipende e che tanto influenzerà il futuro della nazione. Riscoprire l’interesse nazionale e la stessa coscienza mediterranea dell’Italia sarebbero sicuramente i primi passi verso un futuro meno incerto.
Bibliografia:
Egidio Ivetic, Il Mediterraneo e l’Italia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2022
da Matteo Mercuri | Mag 14, 2024 | La coscienza italiana
Settembre, 1992. Sono passati nove mesi dallo scioglimento dell’Unione Sovietica e sette dall’inizio di Mani pulite con l’arresto di Mario Chiesa. Fine della Guerra fredda e inizio della crisi della Repubblica dei partiti. Mentre nell’Europa centro-orientale si sta compiendo la rivincita dello stato nazionale, in Italia lo Stato repubblicano sta vivendo lo sconvolgimento più grave dalla sua fondazione. É in questo clima che Ernesto Galli della Loggia, non ancora editorialista del Corriere della Sera, decide di rivolgersi al pubblico del Convegno di Trieste su Nazione e nazionalità in Italia con una relazione dal titolo La morte della patria. Questa formula, il cui obiettivo è quello di esprimere la crisi dell’idea di nazione in Italia a seguito della tragedia dell’8 settembre, viene ripresa dal De profundis di Salvatore Satta, un testo carico di dolore, scritto tra il giugno del 1944 e l’aprile del 1945, nel quale l’autore riflette sulla disfatta italiana e sulla catastrofe della guerra civile. Alla conferenza di Galli della Loggia, poi pubblicata in volume dall’editore Laterza, fa seguito un proliferare di scritti sulla lunga crisi del sentimento nazionale italiano, tanto da far parlare Emilio Gentile – non senza una nota polemica – di un vero e proprio genere letterario della morte della patria. É però proprio questo “coro di lamentazioni patriottiche” a spingere lo storico molisano a pubblicare nel 1997 una storia del mito della nazione nell’Italia contemporanea. Pur rigettando l’attribuzione del suo testo a quell’osteggiata varietà, Gentile ammette che “alla pubblicazione del libro non fu estranea la lettura del genere letterario della «morte della patria»”. In effetti, il suo obiettivo è proprio quello di moderare e correggere quelli che considera i frettolosi giudizi emersi negli anni precedenti. Intento opposto a quello di Galli della Loggia, che invece vuole esattamente dare il là a un dibattito pubblico sull’idea di nazione italiana. Ci troviamo così di fronte a due storici contemporanei, separati da differenze di metodo e di intenzione, che nel loro ruolo di intellettuali intervengono su una questione di (massimo) pubblico interesse, innescando una disputa a distanza. É possibile sviluppare un confronto tra le due posizioni intorno alla valutazione data dai protagonisti al ruolo svolto da tre fattori: l’8 settembre, il Partito comunista e la Democrazia Cristiana.
Il giudizio riguardo la catastrofe dell’8 settembre è sostanzialmente concorde. Lo “spettacolo della dissoluzione dello Stato” all’indomani della proclamazione dell’armistizio, incarnato dallo sbandamento dell’esercito e dalla fuga del Re, è ciò che ha prodotto la disgregazione dell’identità nazionale, rappresentata dall’idea dell’Italia come grande Stato nazionale ereditata dal Risorgimento. Vi sono comunque due elementi di distinzione: se Galli della Loggia non esita a vedere specificamente nell’8 settembre lo spartiacque tra le due fasi della storia dello Stato, in quanto “simbolo del fallimento rovinoso in cui è destinata ad incorrere qualsiasi risposta” ideologica alla domanda riguardo la possibilità per gli italiani di essere nazione, Gentile è indubbiamente più cauto. Egli attribuisce infatti tale ruolo di cesura al combinato disposto degli eventi del triennio 1943-46: solo nel loro insieme “trascinarono nella rovina anche la fragile identità nazionale che, pur con tutti suoi limiti, ambizioni e illusioni, gli italiani avevano conquistato durante gli otto decenni di vita unitaria”. Vi è infine il ruolo della desolante disintegrazione dell’esercito, su cui Galli della Loggia si concentra molto di più e a cui dà un significato prima di tutto morale, in quanto immagine “della rinuncia a battersi, della resa alla paura, del disintegrarsi della volontà e della capacità di durare e resistere da parte dello Stato”. Gli unici attori rimasti a poter interpretare la coscienza nazionale erano i partiti antifascisti, ritrovatisi padroni delle macerie dello Stato.
É sulla valutazione del ruolo di questi che le posizioni tra i due storici differiscono: se Galli della Loggia ne descrive l’azione come sostanzialmente antinazionale, Gentile è più disposto a sottolinearne il recupero di alcuni aspetti della tradizione patriottica italiana. Il primo nota una ambiguità di fondo comune a tutti i partiti della Resistenza, i quali si sono presentati come i vincitori al termine di una guerra che il Paese aveva perso: va infatti notato “il carattere nazionale, e non già fascista, che la sconfitta ebbe agli occhi degli Alleati, e che quindi ad essa va anche storicamente attribuito”, confermato dall’iniquità del Trattato di pace. A ciò si aggiunge il rifiuto da parte della Resistenza di accettare l’espressione guerra civile, che non è stato altro che “il tentativo – in tutto e per tutto analogo a quello fascista, ma solo rovesciato di segno – di confiscare a vantaggio di una sola parte l’idea di nazione”, causa del fallimento da parte della stessa nel divenire un mito di fondazione adeguato per il rinnovato Stato da innestare nell’identità nazionale. Diversamente, pur riconoscendo “una progressiva estraniazione degli italiani dal mito nazionale” perpetrata dalla Repubblica nata dalla Resistenza, Gentile individua al suo interno due difensori dell’idea di nazione: il Partito comunista e il mondo cattolico.
Vediamo il primo: facendo uso delle riflessioni di Gramsci sulla storia e sulla cultura d’Italia, il PCI avrebbe costruito una “mitologia nazionalcomunista”, che si sarebbe presentata come una nuova forma di italianismo: l’arrivo al governo da parte dei comunisti sarebbe stato il compimento della rivoluzione nazionale iniziata dal Risorgimento, la cui classe dirigente liberale avrebbe lasciato il testimone all’intellettuale organico gramsciano. Ma, sempre a parere di Gentile, è stato l’antifascismo l’elemento attraverso il quale il Partito comunista ha legato maggiormente se stesso al destino della nazione: “il monopolio dell’antifascismo e dello «spirito della Resistenza» fu la condizione per rivendicare il mito nazionale”. Da una rappresentazione patriottica del comunismo italiano non potrebbe essere più lontano Galli della Loggia, che vede nella decisione di Togliatti di schierarsi dalla parte della Jugoslavia sulla questione dell’Istria e della Venezia-Giulia l’espressione più chiara della pulsione contraria all’interesse nazionale italiano proveniente dal PCI. In generale, l’azione del Partito comunista in veste di agente di prossimità di un paese straniero, l’Unione Sovietica, avverso agli interessi nazionali italiani, avrebbe contribuito all’incapacità della Resistenza di “acquisire compiutamente la dimensione nazional-patriottica che, allora come oggi, sarebbe stata necessaria perché essa potesse divenire davvero matrice di «memoria condivisa» per tutti gli italiani”. Più in generale, “la disintegrazione della statualità italiana seguita all’8 settembre creò uno scenario non solo di tipo preunitario, ma […] addirittura seicentesco, nel quale tutti gli attori politici nazionali si trovarono costretti […] a rappresentare ciascuno uno straniero, a doversi identificare in misura maggiore o minore con uno di essi”.
Venendo al mondo cattolico, Galli della Loggia individua nel tentativo da parte della Democrazia Cristiana, fin dal momento della presa di possesso dello Stato, di rendere la comune fede religiosa il collante nazionale, in sostituzione degli ideali risorgimentali, un’amputazione dell’originale idea di nazione italiana. Al contrario, Gentile vede nello sforzo cattolico di conquistare l’italianità, anche attraverso la valorizzazione della componente neo-guelfa del Risorgimento, come un autentico tentativo di ricostruire l’identità nazionale. Un tentativo comunque destinato a fallire, in quanto la “subordinazione dell’identità nazionale all’ideologia del partito fu certamente una delle principali cause che impedirono all’Italia repubblicana di avere un mito nazionale, a prescindere dalla militanza politica”. Gentile esprime così un punto con il quale Galli della Loggia non potrebbe che assentire: “I partiti dell’Italia repubblicana non riuscirono a coltivare e trasmettere agli italiani la coscienza nazionale, l’amor di patria, il senso dello Stato, coniugandoli con i valori della democrazia sociale”.
In conclusione, ci sembra questo il più grave peccato dello Stato repubblicano: non aver saputo definire univocamente l’interesse nazionale, la ragione di Stato, i valori non negoziabili della nazione. Solo in questi si può formare una classe dirigente adeguata, in primo luogo una burocrazia statale funzionante, la quale dovrebbe fare riferimento alla sola cultura della nazione – intesa come spazio non negoziabile di valori – e perciò percepita come rappresentante dell’interesse generale. Tale spazio valoriale va cercato all’interno della nazione stessa, attraverso il dibattito pubblico e accademico: è questo il caso della disputa a distanza tra Ernesto Galli della Loggia ed Emilio Gentile. Un dibattito non a caso avvenuto al tramonto di quel controllo egemonico sullo Stato chiamato Repubblica dei partiti, alba mancata di un nuovo patriottismo democratico.
Bibliografia
Ernesto Galli della Loggia, La morte della patria, Laterza, Roma-Bari, 1996
Emilio Gentile, La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo (1997), Laterza, Roma-Bari, 2006
Salvatore Satta, De profundis (1948), Adelphi, Milano, 1980
da Gabriele Coccia | Mag 7, 2024 | La coscienza italiana
Le nazioni sono composizioni d’uomini; risorgono le nazioni quando risorge uno per uno a virtù ed a civiltà, a concordia di voleri la maggioranza degli uomini che le compongono
Ippolito Nievo, Due scritti politici
Lo ammetto. Mi dichiaro colpevole. Io, reo confesso, accetto la mia pena ed aspetto che la condanna venga eseguita. Aspetto pazientemente e aspetto ancora. Probabilmente aspetterò per sempre: nessuno verrà mai a far rispettare la legge. Ho peccato e tuttora pecco di far parte anche io di quel popolo, che ambisce dirsi italiano, che ripetutamente e consapevolmente pretende di non riconoscere sé stesso, considerandosi al di fuori, o meglio, al di sopra, della cosiddetta patria. Questo è, probabilmente, il più tradizionale dei sintomi dell’italianità: non sentirsi partecipi di un sentimento nazionale, contrastato e aborrito, che purtuttavia aleggia nell’aria, come un docile vento che muove le foglie ma di cui non si riesce a coglierne la direzione.
Addentrarsi nella grande questione riguardante l’identità nazionale italiana è impresa tanto ardua quanto essenziale. Decine di poeti, politologi e politicanti hanno provato nel corso dei secoli a definire questa nostra nazione, cercando di coglierne un senso che andasse oltre la considerazione dell’Italia come mera espressione geografica. Dal Sommo Poeta ai giorni nostri sembra però più facile identificare quegli elementi di cui il popolo italiano non dovrebbe, almeno così speriamo sia realmente, considerare come i veri valori su cui la nazione italiana, e l’appartenenza ad essa, sono fondate. Il collante di questa penisola che ci ostiniamo a chiamare casa è, a quanto pare, la mancata capacità dei suoi abitanti di oltrepassare le differenze locali, ed evidenziare quest’ultime più delle, certamente maggiori, somiglianze. La distanza che separa due italiani è tanto ampia quanto l’immaginazione che la crea. Essa è spesso inesistente, pretestuosa. Eppure, la si pensa presente, e si disprezza il proprio vicino senza averne apparente motivo. Predisposizione naturale di tutti gli uomini, si dirà. Nessuno lo nega, è più facile evidenziare i tratti che più ci differenziano rispetto a quelli che ci accumunano. Il popolo italiano ha però questa (in)capacità, al contrario di molti altri popoli, di non riuscire ad eliminare le distanze municipali quando ci si eleva a livello nazionale. Accade quindi che la patria venga ricordata maggiormente nella sconfitta, nella delusione, nella catastrofe; essa può così essere rinnegata a piacimento, demonizzata al minimo tentennamento, identificata come altro da sé, come versione amputata di quello che avrebbe potuto essere nella sua migliore versione (si, ma quale?). Da questa atavica tendenza tutta italiana si deriva un altro fondamento del nostro essere: la mancanza di responsabilità, la quale viene rivolta in una duplice direzione: verso noi stessi e verso gli altri, con implicazioni che collegano le due direttrici. L’Italia, intendendo cioè il popolo che la abita, ha sempre dimostrato profonde difficoltà ad accettare la sconfitta, a identificarsi con il perdente anche quando evidentemente lo è; tende a coltivare la cattiva abitudine di non volere fare i conti con sé stessa, con il proprio passato e la propria storia, mettendo in atto i due meccanismi di difesa più adatti: la rimozione e, come già detto, la proiezione. Rimuoviamo quanto riteniamo sia di troppo, e quel che non riusciamo a rimuovere lo consideriamo come una responsabilità altrui, come espressione di una componente malata della nazione a cui noi non apparteniamo, della quale non possiamo condividere il tragico destino. Questa la direttrice interna, quella che rivolgiamo verso noi stessi. Mentre quella esterna deriva anch’essa dalla proiezione delle proprie responsabilità, ma in questo caso suo oggetto sono elementi esterni ai nostri confini: se quel che succede in patria non ci piace, ci rivolgiamo speranzosi, trasportandoci direttamente dal municipale al sovranazionale, all’intervento di un veltro, per alcuni Provvidenza, politico, ideologico o economico che sia, che discenda in Italia per ristabilirvi la pace, l’ordine, e che sappia ripristinare, da straniero, il vero spirito patrio.
La delega della responsabilità implica però immancabilmente una rinuncia della propria libertà, della propria autonomia e indipendenza, della possibilità di poter determinare il corso della propria esistenza senza dover soddisfare necessità ed esigenze altre. Quel che l’Italia ha fatto e continua a fare va contro i suoi stessi interessi nazionali. Non c’è bisogno che io citi momenti, fasi storiche, personaggi, eventi, che dimostrino quanto è evidente a tutti noi.
Cosa fare quindi? Di fronte ad un quadro così desolante, destinato a riproporsi sotto diverse vesti ma sempre uguale a sé stesso? Come cambiare le cose? La strada percorribile sembra essere solo una: disperare; abbandonare speranze e buoni propositi; arrampicarsi sugli alberi e rifiutarsi di accettare la realtà dondolandosi da un ramo all’altro; recarsi all’agenzia delle entrate e fare di questa nazione legalmente bordello; comprarsi da sé il gesso e segnare le porte dove alloggerà il nemico, senza aspettare che sia lui ad approfittare della nostra ignavia. Apriamoci al mondo svuotandoci dall’interno. Rinunciamo ad essere qualunque cosa abbiamo mai avuto la velleità di considerarci.
Ma se fosse la perdizione ad essere la strada per ritornare al punto di partenza e provare a ricominciare? Certo, si potrebbe dire che la perdizione stia durando ormai da fin troppo tempo, e che il tragitto per giungere nuovamente da dove siam venuti sia fin troppo travagliato e tortuoso. Tuttavia, non è forse il riconoscimento dell’errore che ci offre la possibilità di redimerci? Non è la strada sbagliata che dovrebbe quanto meno darci l’idea di quella corretta? Siamo lenti ad imparare, questa è una certezza, ma così come si impara a zoppicare si può e si deve, per amor proprio, tornare a camminare dritti e coordinati.
L’incapacità di assumerci le nostre responsabilità ci ha portati, lungo la nostra storia, ad abbandonare la via maestra, quella che persegue il nostro interesse, per percorrere strade a noi sconosciute ma che ci siamo illusi fossero quelle a noi più adatte e congeniali: ci siamo sbagliati, abbiamo sempre sbagliato quando abbiamo preferito affidarci ad altri per cercare di salvare noi stessi: solo le nostre forze possono garantirci la libertà a lungo perseguita. La coscienza delle proprie colpe è solo il primo passo per la sua riacquisizione, d’altronde la società non si pone problemi per la cui soluzione non esistono già le condizioni necessarie e sufficienti. Troppo a lungo abbiamo indugiato in questa media condizione da esuli: provinciali e internazionali allo stesso tempo senza avere la capacità di percepire davvero noi stessi, di essere in grado di guardarci negli occhi, riconoscerci.
Sembra chiaro che gli italiani altro non possano fare che prendere consapevolezza del proprio assoggettamento, spesso autoimposto, acquisendo nuova forza per fuoriuscire da una condizione di minorità, eliminando la propensione al disfattismo, attenuando la preferenza accordata all’anti eroismo. La strada per ottenere maggiore consapevolezza di quello che siamo e, soprattutto, di quello che potremmo essere, è ostacolata solamente dalla nostra cecità, così oscura da non permetterci di distinguere, scorgendone solo la sagoma, gli amici dai nemici. Allo stesso tempo essa è però rivelatrice a tal punto dello spaesamento e della perenne labirintite del paese da farci sperare con Piero Gobetti nella reazione, auspicando “che ci sia chi avrà il coraggio di levare la ghigliottina, che si mantengano le posizioni fino in fondo”, chiedendo “le frustate perché qualcuno si svegli, il boia perché si possa vedere chiaro”. Con la testa incastrata tra la lama e la vita, ci renderemmo improvvisamente conto del fatto che essa è ancora attaccata al resto del corpo. Una fantasia, un sogno irrealizzabile sarebbe quello di divenire consapevoli dei propri mali senza che ci siano altri a condannarci a morte per averli lungamente perpetrati; prendere invece coscienza della grave infermità che ci affligge e, convalescenti, rimettersi pazientemente in salute, aggiustare la propria postura attraverso quotidiano impegno, sarebbe una soluzione preferibile e il primo passo dell’unica strada percorribile per cambiare sé stessi e l’Italia.
In una nazione ignota a sé stessa, ignara della sua (in)esistenza, tardiva nelle sue resipiscenze, molti italiani sono quindi accomunati da un tragico destino: morti ancor prima di morire trascorrono gran parte della propria vita a cercare di comprendere i mali dell’Italia, prima responsabile dello stato derelitto in cui riversa, perché “l’Italia non è serva degli stranieri, ma de’ suoi”. Così Carlo Cattaneo, tra i più importanti teorici risorgimentali, muore in solitudine l’anno prima della breccia di Porta Pia; Ippolito Nievo partecipa alla spedizione dei mille guidata da Garibaldi, e nello stesso anno muore in un naufragio nel mezzo del mar Tirreno mentre era in viaggio dalla Sicilia verso il continente; Piero Gobetti muore esule a Parigi in seguito a complicanze dovute ai ripetuti pestaggi subiti dalle squadre fasciste. Tre italiani che hanno saputo osservare l’Italia, scandagliarne le molteplici sfaccettature, entrare nelle pieghe della storia e farsi parte attiva dello scontro, non venendo mai meno all’impegno della lotta con pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà, non accettando compromessi più o meno storici, spingendosi oltre la palude che inabissa ogni speranza e atrofizza ogni slancio, oltrepassando quel guado in tragica solitudine, provando a scorgere, al di là di esso, un’Italia diversa: forse migliore, forse solo più libera.
Solamente nell’abisso de’ suoi mali può concepire il popolo della persuasione de’ suoi diritti che ancora non ha. […] Fra le sventure il nostro popolo ha raccolto due tesori: un tesoro d’odio; e lo deve al nemico stolto e feroce, che non seppe adoperar la vittoria se non a farsi aborrire: un tesoro di fiducia; e lo deve a sé medesimo, perché sa quanto ha potuto e quanto può
Carlo Cattaneo, Una teoria della libertà
Proprio su queste ultime parole sono impostati i lavori che animano questa bimestralità. Nel tentativo di sondare la coscienza italiana ci siamo imbattuti in questioni senza tempo e dibattiti contemporanei, problemi eterni e tentativi (mal)riusciti di fare l’Italia e gli italiani. Di fronte ad un passato che ci obbliga a evidenziarne le mancanze, proviamo a pensare ad un futuro, eterno presente, latore di maggiore consapevolezza e più radicata appartenenza.
Esemplare è l’articolo firmato da Sophia Grew sulla città di Trieste, città di confine tra l’Italia e il mondo. Il viaggiatore che giunge in città ben si rende conto della sua ambiguità. Legalmente italiana, all’apparenza lo spazio pubblico è animato da una pluralità di appartenenze difficilmente eliminabili.
Matteo Mercuri si interessa dell’annosa questione della Morte della Patria e del ruolo svolto dai maggiori partiti antifascisti dopo la Seconda guerra mondiale, illustrando il dibattito tra due dei più importanti storici del Novecento italiano: Ernesto Galli della Loggia e Emilio Gentile. Sempre di uno storico si occupa Marco De Tommasi analizzando gli scritti di Mario Isnenghi sulla storia della nazione italiana, stracolma di fratture, incomprensioni e tensioni mai sopite, cercando di individuare la figura più adatta al loro superamento.
Cercare di comprendere la coscienza nazionale italiana significa non poter prescindere dal considerare il rapporto che l’Italia ha con il suo mare: lo fa Alessandro Andronico che ci parla delle problematicità di una relazione non sempre idiosincratica.
Scritto a quattro mani, l’articolo di Elisa Stella e Gaia Perego si occupa del fondamentale ruolo che ha sempre avuto, e che ha anche oggi, il patrimonio culturale artistico italiano nella formazione dell’identità nazionale, interessandosi di diversi momenti dalla proclamazione dell’Unità all’Italia Repubblicana. Tancredi Roncadin si concentra invece sui metodi, gli obiettivi e le difficoltà, numerose e radicate, dell’insegnamento della filosofia nei licei italiani di oggi. La sua riflessione si interroga sulle incomprensioni legate alla diffusione della disciplina, legandole logicamente alle più ampie problematiche del sistema scolastico italiano.
Siamo poi successivamente andati più a fondo cercando di comprendere il popolo dietro la nazione. I ragazzi del progetto di Substoria hanno studiato, analizzando fonti alternative, l’identità italiana degli emigrati dal suolo patrio, i quali hanno contribuito e contribuiscono a creare una certa idea di Italia. Jozef Taiana cerca di mostrarci un’altra Italia, una versione parallela di quella ufficiale, più nascosta e forse più autentica, prendendo in considerazione il progetto Viaggio in Italia di Luigi Ghirri. Raphael Grew, infine, ci mostra la valenza culturale e politica della tradizione calcistica italiana: contrapposizioni sportive che solo apparentemente sembrano immotivate sono invece giustificate dall’analisi del passato storico dei particolarismi che hanno attraversato l’Italia prima e durante la sua formazione.
Siamo andati alla ricerca di un’Italia che scorre parallela a quella ufficialmente propagandata. Abbiamo indagato campi di vario interesse cercando di trarne uno spirito che li accomunasse. Abbiamo percorso una strada che, fatta di svolte, punti ciechi e pericolosi incroci, ci conduca passo passo ad un’ampia veduta del mare dove la via percorsa si interrompe, sfociando, come tutti i fiumi, nel vasto orizzonte di libertà che una navigazione priva di paure, nostalgie e velleitarismi può offrire.
Bibliografia
Carlo Cattaneo, Una teoria della libertà, Einaudi, Torino
Piero Gobetti, La rivoluzione liberale, Einaudi, Torino
Stefano Jossa, Un paese senza eroi, Laterza, Roma Bari