La fier(ezz)a dell’Est

La fier(ezz)a dell’Est

Quando nell’estate del duemilaventidue sono arrivato a Berlino, la prima cosa che mi sono trovato davanti è stata una manifestazione filorussa, organizzata da militanti di estrema sinistra, che scendeva per Otto-Braun-Straße. Il corteo terminò in Rosa-Luxemburg-Platz, di fronte al Karl-Liebknecht-Haus, sede del partito marxista Die Linke – come lo era stato della SED, il partito-stato della DDR – e alla Volksbühne, il teatro popolare. Insieme al retrostante archivio della Stasi, questo gruppo di edifici rappresenta uno spaccato del passato della capitale della Repubblica Democratica Tedesca. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non si tratta di una testimonianza della ormai nota riluttanza da parte della popolazione tedesco-orientale ad assimilare i canoni occidentali; questo quartiere è invece perfettamente integrato nella condizione post-storica della Berlino riunificata: l’estetica e la toponomastica novecentesca della piazza si accompagnano tranquillamente alla presenza di un pub popolato da turisti americani e australiani ansiosi di non perdere gli eventi dei loro sport nazionali. La stessa Die Linke non ha più nulla a che vedere con le istanze di quello che fu il movimento operaio, dopo che la componente culturalmente occidentale del partito – più concentrata sui diritti individuali che sulle rivendicazioni economiche – ha prevalso sugli eredi della SED. Non che io stia dicendo nulla di nuovo: chiunque abbia trascorso anche poche ore a Berlino, si sarà reso conto di come questo non sia il posto adatto per trovare lo spirito della Germania orientale. In assenza di meglio da fare, sono andato a cercarmelo da solo. 

Salito su un treno della Deutsche Bahn, l’azienda ferroviaria federale, odiata dai tedeschi per la sua inaffidabilità, mi sono diretto a Naumburg, nel Sachsen-Anhalt. Questa città è famosa per il duomo dei Santi Pietro e Paolo, che unisce lo stile tardo romanico a quello gotico e ospita la statua della marchesa Uta di Ballenstedt, scultura venerata dai nazisti che ispirò a Walt Disney le fattezze della strega di Biancaneve. In questa città Friedrich Nietzsche trascorse l’adolescenza con la madre e la sorella dopo la morte del padre. Qui prestò anche servizio nell’esercito prussiano, che nel 1871 diventerà il perno dell’esercito imperiale, custode dell’eccezionalismo tedesco (Sonderweg) imposto da Bismarck alla politica estera del secondo Reich, fondato sulla corrispondenza tra l’interesse germanico e quello dell’intera umanità. Lo spirito prussiano, militarista e antiliberale, fu il perno ideologico dell’impero tedesco, il cui imperatore era sia Kaiser di Germania sia re di Prussia. Non a caso gli esponenti del movimento cultural-letterario della rivoluzione conservatrice, dopo il disastro della prima guerra mondiale, decisero di fondare sul prussianesimo la loro idea di Germania, prendendo a modello l’impero guglielmino e la monarchia prussiana che ne era alle origini. Fu proprio il timore dello spirito prussiano, nucleo valoriale dello stato che aveva perso la prima guerra mondiale e memoria idealizzata di quello che aveva perso la seconda, a spingere gli Alleati a compiere nel 1947 quello che sarebbe stato il loro ultimo atto congiunto: l’abolizione formale della Prussia, rimasta in vita fino a qual momento come Land del Terzo Reich. Il poeta brandeburghese Gottfried Benn, che della rivoluzione conservatrice era stato esponente, scrisse di desiderare la “eliminazione di ogni persona che nei prossimi cento anni dica prussianesimo o Reich”. Non solo, tutti i territori persi dalla Germania a causa del secondo conflitto mondiale – Slesia, Pomerania e Prussia orientale – erano prussiani, e furono quindi prussiani tutti quei 12 milioni di cittadini tedeschi espulsi dal governo polacco, spinti al di là del nuovo confine, segnato dai fiumi Oder e Neiße. Questa linea di demarcazione è stata riconosciuta dalla Repubblica Federale Germania solo nel 1990, un mese dopo l’unificazione. Io ci son stato, a Francoforte sull’Oder, oggi luogo di passaggio per i frontalieri polacchi e per quei tedeschi che si recano in Polonia ad acquistare merci orientali a basso prezzo, soprattutto dolciumi. Anche a Naumburg la tensione verso oriente è testimoniata dalla componente gastronomica: il piatto più comune nella città è infatti il borsch, la zuppa a base di barbabietole diffusa in tutta l’Europa nell’est.

Lasciata Naumburg, ho proseguito il mio viaggio verso lo Stato libero di Turingia, Freistaat Thüringen, il più meridionale dei territori acquisiti dalla Repubblica Federale nel ’90. Alle ultime elezioni europee il 30,7% dei suoi abitanti ha votato per il partito nazionalista Alternative für Deutschland, mentre il neonato Bündnis Sahra Wagenknecht, ramo orientale nazional-marxista di Die Linke recentemente distaccatosi, ha preso il 15% dei voti: questi risultati hanno confermato la Turingia, insieme alla vicina Sassonia, come culla del nuovo nazionalismo tedesco. L’AfD e il BSW sono così popolari nell’Est perché i suoi abitanti non accettano la condizione post-storica diffusa nella Germania occidentale. Secondo l’analista Luca Steinmann, a partire dal dopoguerra i partiti della Repubblica Federale “puntarono tutto sul presunto carattere regressivo dello Stato nazionale in quanto tale, rinnegando la nazione bismarckiana e parlando di identità postnazionale”, scommettendo così su un approccio antitetico al precedente sviluppo dello Stato tedesco,  e rifondandolo sui principi liberali della costituzione federale attraverso il Verfassungspatriotismus, il patriottismo della costituzione. Nelle idee della dirigenza occidentale, l’unificazione del 1990 avrebbe portato alla diffusione di questi valori anche nell’Est. Negli anni è però emersa una decisa resistenza da parte dei suoi abitanti all’occidentalizzazione, chi perché legato alla tradizione marxista, chi perché di idee conservatrici e neoprussiane. All’ingresso dei territori che avevano formato la DDR nella Repubblica Federale Germania, non è infatti seguito l’abbandono da parte della popolazione del germanismo politico e culturale: la contrapposizione antiliberale all’Occidente che, reinterpretata in chiave marxista, era sopravvissuta nella DDR. La dirigenza socialista aveva infatti recuperato l’idea del Sonderweg, intesa come eccezionalità storica della Germania fondata sulla Prussia, unica nazione giunta alla modernità senza abbracciare il liberalismo politico. Peter Feist, consulente di AfD e nipote del segretario della SED Erich Honecker, ricorda che ai tedeschi dell’Est il patriottismo è stato insegnato come un ideale storico della sinistra tradizionale, per il quale le guerre contadine, la resistenza a Napoleone e la rivoluzione del 1848 erano interpretate come lotte di emancipazione che avevano anticipato l’avvento del socialismo. 

L’ostilità tedesco-orientale nei confronti dell’Occidente, di matrice culturale, è stata acuita dalle differenze economiche che dividono l’Ovest della Germania dall’Est, dove il PIL pro capite arriva ad essere la metà che ad Amburgo. Questo si riverbera sulla qualità delle infrastrutture, a cominciare dai trasporti pubblici. Me ne sono accorto cercando di raggiungere Röcken, paese natale di Nietzsche e suo luogo di sepoltura. Il villaggio è infatti raggiungibile solo a piedi o in macchina, anche perché abitato dalle poche decine di contadini che lavorano i campi circostanti. Si sviluppa intorno alla canonica, di cui il padre era stato pastore, e accanto alla quale l’intera famiglia è stata sepolta: tre tombe, quelle di Nietzsche e della sorella Elisabeth di granito rosa, quella dei genitori di pietra ruvida. Dopo la riunificazione è stato costruito un piccolo museo nel retro della canonica e le tombe sono state ripulite, ma ai tempi della DDR, quando il nome di Nietzsche era stato rimosso dalla memoria collettiva per volere della SED, il luogo era ancora più desolato di oggi: Massimo Fini ricorda che negli anni Settanta si faceva fatica a rintracciare la tomba, interamente incrostata e coperta di felci, specchio della solitudine in cui Nietzsche aveva vissuto e della sua rimozione dalla memoria ufficiale. Addirittura, fino al 1961 nessuno aveva compiuto una trascrizione filologica dei manoscritti del filosofo tedesco, chiusi nel Nietzsche-Archiv di Weimar; quell’anno Giorgio Colli e il germanista Mazzino Montinari, grazie alla tessera del Partito comunista italiano di quest’ultimo, riuscirono a prendere contatto con le autorità della DDR e ad avere accesso alle carte. Il loro indispensabile lavoro – Montinari era l’unico al mondo a riuscire a decifrare la scrittura di Nietzsche a prima vista – portò alla pubblicazione dell’edizione scientifica delle opere di Nietzsche, edita in Italia da Adelphi e in tedesco da de Gruyter. La prima stanza sulla destra del Nietzsche-Archiv è oggi dedicata a Colli e Montinari.

Le carte di Nietzsche non si trovano più qui: sono state spostate al Goethe-und Schiller-Archiv. Dall’alto del colle su cui sorge, questo edificio domina Weimar. La città, probabilmente la più bella della Germania, ha subìto, dopo l’unificazione, un’opera di riqualificazione volta a valorizzarne il patrimonio artistico. É indubbio che la città offrisse molto materiale alla turistificazione: qui si trovano le case museo di Schiller e Goethe e la villa che fu di quest’ultimo, immersa nel Park an der Ilm, che ospita anche Haus am Horn, capolavoro del Bauhaus, stile architettonico di cui la città è patria; seguono la gigantesca Anna Amalia Bibliothek, il teatro nazionale e il museo della repubblica di Weimar. Il fenomeno soprammenzionato ha ovviamente causato un forte aumento del costo della vita, ma questa è la sua conseguenza usuale. Vi è un aspetto più interessante di quest’opera di musealizzazione: la maniera sprezzante nei confronti della popolazione dell’Est con cui è stata compiuta, quasi che quei luoghi andassero salvati dalla barbarie orientale alla cui mercé erano stati per quattro decenni. Atteggiamenti di questo tipo, tenuti dai tedeschi occidentali (Wessis) nei confronti di quelli orientali (Ossis) in seguito all’unificazione, sono tra le principali cause del risentimento che questi ultimi portano nei confronti del resto del paese e delle istituzioni federali. Ma sono anche l’ultima istanza delle divisioni che storicamente caratterizzano i tedeschi, il cui Stato nazionale è stato fondato da un uomo, Guglielmo I, che si sentiva prima re di Prussia che imperatore di Germania. Se l’identità più radicata in un territorio circoscritto è quella bavarese e quella anseatica è custode del mercantilismo tedesco, quella Ossi è oggi in ascesa ed è decisa a far valere le proprie ragioni. Questo carattere è costituito da vari elementi, che in determinati momenti sono usciti dalla porta per rientrare dalla finestra della storia tedesca: le identità locali sassone e turingica, l’antiliberalismo d’origine prussiana, la nostalgia della DDR (Ostalgie), una visione dello sviluppo della statualità tedesca libera dal senso di colpa. Nuclei valoriali ancorati allo spazio culturale e politico tedesco-orientale: quando vanno, prima o poi ritornano.

Bibliografia 

Gottfried Benn, Sul tema Storia (1959), in Lo smalto sul nulla, Adelphi, Milano, 1992

Giorgio Colli, Scritti su Nietzsche, Adelphi, Milano, 1980

Peter Feist, “Le radici dell’AfD sono nel patriottismo della DDR”, in Limes, 12/2018, Essere Germania

Massimo Fini, Nietzsche, Marsilio, Venezia, 2002

Luca Steinmann, AfD, il nuovo nome del nazionalismo tedesco, in Limes, 12/2018, Essere Germania

AA.VV., Deutschlandkarte zur Europawahl 2024, Tagesspiegel, 10 giugno 2024

Patria o morte? L’8 settembre e la crisi della nazione

Patria o morte? L’8 settembre e la crisi della nazione

Settembre, 1992. Sono passati nove mesi dallo scioglimento dell’Unione Sovietica e sette dall’inizio di Mani pulite con l’arresto di Mario Chiesa. Fine della Guerra fredda e inizio della crisi della Repubblica dei partiti. Mentre nell’Europa centro-orientale si sta compiendo la rivincita dello stato nazionale, in Italia lo Stato repubblicano sta vivendo lo sconvolgimento più grave dalla sua fondazione. É in questo clima che Ernesto Galli della Loggia, non ancora editorialista del Corriere della Sera, decide di rivolgersi al pubblico del Convegno di Trieste su Nazione e nazionalità in Italia con una relazione dal titolo La morte della patria. Questa formula, il cui obiettivo è quello di esprimere la crisi dell’idea di nazione in Italia a seguito della tragedia dell’8 settembre, viene ripresa dal De profundis di Salvatore Satta, un testo carico di dolore, scritto tra il giugno del 1944 e l’aprile del 1945, nel quale l’autore riflette sulla disfatta italiana e sulla catastrofe della guerra civile. Alla conferenza di Galli della Loggia, poi pubblicata in volume dall’editore Laterza, fa seguito un proliferare di scritti sulla lunga crisi del sentimento nazionale italiano, tanto da far parlare Emilio Gentile – non senza una nota polemica – di un vero e proprio genere letterario della morte della patria. É però proprio questo “coro di lamentazioni patriottiche” a spingere lo storico molisano a pubblicare nel 1997 una storia del mito della nazione nell’Italia contemporanea. Pur rigettando l’attribuzione del suo testo a quell’osteggiata varietà, Gentile ammette che “alla pubblicazione del libro non fu estranea la lettura del genere letterario della «morte della patria»”. In effetti, il suo obiettivo è proprio quello di moderare e correggere quelli che considera i frettolosi giudizi emersi negli anni precedenti. Intento opposto a quello di Galli della Loggia, che invece vuole esattamente dare il là a un dibattito pubblico sull’idea di nazione italiana. Ci troviamo così di fronte a due storici contemporanei, separati da differenze di metodo e di intenzione, che nel loro ruolo di intellettuali intervengono su una questione di (massimo) pubblico interesse, innescando una disputa a distanza. É possibile sviluppare un confronto tra le due posizioni intorno alla valutazione data dai protagonisti al ruolo svolto da tre fattori: l’8 settembre, il Partito comunista e la Democrazia Cristiana.

Il giudizio riguardo la catastrofe dell’8 settembre è sostanzialmente concorde. Lo “spettacolo della dissoluzione dello Stato” all’indomani della proclamazione dell’armistizio, incarnato dallo sbandamento dell’esercito e dalla fuga del Re, è ciò che ha prodotto la disgregazione dell’identità nazionale, rappresentata dall’idea dell’Italia come grande Stato nazionale ereditata dal Risorgimento. Vi sono comunque due elementi di distinzione: se Galli della Loggia non esita a vedere specificamente nell’8 settembre lo spartiacque tra le due fasi della storia dello Stato, in quanto “simbolo del fallimento rovinoso in cui è destinata ad incorrere qualsiasi risposta” ideologica alla domanda riguardo la possibilità per gli italiani di essere nazione, Gentile è indubbiamente più cauto. Egli attribuisce infatti tale ruolo di cesura al combinato disposto degli eventi del triennio 1943-46: solo nel loro insieme “trascinarono nella rovina anche la fragile identità nazionale che, pur con tutti suoi limiti, ambizioni e illusioni, gli italiani avevano conquistato durante gli otto decenni di vita unitaria”. Vi è infine il ruolo della desolante disintegrazione dell’esercito, su cui Galli della Loggia si concentra molto di più e a cui dà un significato prima di tutto morale, in quanto immagine “della rinuncia a battersi, della resa alla paura, del disintegrarsi della volontà e della capacità di durare e resistere da parte dello Stato”. Gli unici attori rimasti a poter interpretare la coscienza nazionale erano i partiti antifascisti, ritrovatisi padroni delle macerie dello Stato.

É sulla valutazione del ruolo di questi che le posizioni tra i due storici differiscono: se Galli della Loggia ne descrive l’azione come sostanzialmente antinazionale, Gentile è più disposto a sottolinearne il recupero di alcuni aspetti della tradizione patriottica italiana. Il primo nota una ambiguità di fondo comune a tutti i partiti della Resistenza, i quali si sono presentati come i vincitori al termine di una guerra che il Paese aveva perso: va infatti notato “il carattere nazionale, e non già fascista, che la sconfitta ebbe agli occhi degli Alleati, e che quindi ad essa va anche storicamente attribuito”, confermato dall’iniquità del Trattato di pace. A ciò si aggiunge il rifiuto da parte della Resistenza di accettare l’espressione guerra civile, che non è stato altro che “il tentativo – in tutto e per tutto analogo a quello fascista, ma solo rovesciato di segno – di confiscare a vantaggio di una sola parte l’idea di nazione”, causa del fallimento da parte della stessa nel divenire un mito di fondazione adeguato per il rinnovato Stato da innestare nell’identità nazionale. Diversamente, pur riconoscendo “una progressiva estraniazione degli italiani dal mito nazionale” perpetrata dalla Repubblica nata dalla Resistenza, Gentile individua al suo interno due difensori dell’idea di nazione: il Partito comunista e il mondo cattolico.

Vediamo il primo: facendo uso delle riflessioni di Gramsci sulla storia e sulla cultura d’Italia, il PCI avrebbe costruito una “mitologia nazionalcomunista”, che si sarebbe presentata come una nuova forma di italianismo: l’arrivo al governo da parte dei comunisti sarebbe stato il compimento della rivoluzione nazionale iniziata dal Risorgimento, la cui classe dirigente liberale avrebbe lasciato il testimone all’intellettuale organico gramsciano. Ma, sempre a parere di Gentile, è stato l’antifascismo l’elemento attraverso il quale il Partito comunista ha legato maggiormente se stesso al destino della nazione: “il monopolio dell’antifascismo e dello «spirito della Resistenza» fu la condizione per rivendicare il mito nazionale”. Da una rappresentazione patriottica del comunismo italiano non potrebbe essere più lontano Galli della Loggia, che vede nella decisione di Togliatti di schierarsi dalla parte della Jugoslavia sulla questione dell’Istria e della Venezia-Giulia l’espressione più chiara della pulsione contraria all’interesse nazionale italiano proveniente dal PCI. In generale, l’azione del Partito comunista in veste di agente di prossimità di un paese straniero, l’Unione Sovietica, avverso agli interessi nazionali italiani, avrebbe contribuito all’incapacità della Resistenza di “acquisire compiutamente la dimensione nazional-patriottica che, allora come oggi, sarebbe stata necessaria perché essa potesse divenire davvero matrice di «memoria condivisa» per tutti gli italiani”. Più in generale, “la disintegrazione della statualità italiana seguita all’8 settembre creò uno scenario non solo di tipo preunitario, ma […] addirittura seicentesco, nel quale tutti gli attori politici nazionali si trovarono costretti […] a rappresentare ciascuno uno straniero, a doversi identificare in misura maggiore o minore con uno di essi”.

Venendo al mondo cattolico, Galli della Loggia individua nel tentativo da parte della Democrazia Cristiana, fin dal momento della presa di possesso dello Stato, di rendere la comune fede religiosa il collante nazionale, in sostituzione degli ideali risorgimentali, un’amputazione dell’originale idea di nazione italiana. Al contrario, Gentile vede nello sforzo cattolico di conquistare l’italianità, anche attraverso la valorizzazione della componente neo-guelfa del Risorgimento, come un autentico tentativo di ricostruire l’identità nazionale. Un tentativo comunque destinato a fallire, in quanto la “subordinazione dell’identità nazionale all’ideologia del partito fu certamente una delle principali cause che impedirono all’Italia repubblicana di avere un mito nazionale, a prescindere dalla militanza politica”. Gentile esprime così un punto con il quale Galli della Loggia non potrebbe che assentire: “I partiti dell’Italia repubblicana non riuscirono a coltivare e trasmettere agli italiani la coscienza nazionale, l’amor di patria, il senso dello Stato, coniugandoli con i valori della democrazia sociale”.

In conclusione, ci sembra questo il più grave peccato dello Stato repubblicano: non aver saputo definire univocamente l’interesse nazionale, la ragione di Stato, i valori non negoziabili della nazione. Solo in questi si può formare una classe dirigente adeguata, in primo luogo una burocrazia statale funzionante, la quale dovrebbe fare riferimento alla sola cultura della nazione – intesa come spazio non negoziabile di valori – e perciò percepita come rappresentante dell’interesse generale. Tale spazio valoriale va cercato all’interno della nazione stessa, attraverso il dibattito pubblico e accademico: è questo il caso della disputa a distanza tra Ernesto Galli della Loggia ed Emilio Gentile. Un dibattito non a caso avvenuto al tramonto di quel controllo egemonico sullo Stato chiamato Repubblica dei partiti, alba mancata di un nuovo patriottismo democratico.

Bibliografia

Ernesto Galli della Loggia, La morte della patria, Laterza, Roma-Bari, 1996

Emilio Gentile, La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo (1997), Laterza, Roma-Bari, 2006

Salvatore Satta, De profundis (1948), Adelphi, Milano, 1980

Milano, Italia: spazi, progetti e crisi di sistema. Intervista a Gabriele Pasqui

Milano, Italia: spazi, progetti e crisi di sistema. Intervista a Gabriele Pasqui

A Milano la deindustrializzazione ha reso fruibili ampie aree un tempo occupate da stabilimenti. Ciò è avvenuto in particolare per gli scali ferroviari – la cui rete capillare ha costituito un fattore decisivo per lo sviluppo industriale della città – e che oggi sono ormai in disuso. Per questo il Comune punta a rigenerare questi enormi spazi, attraverso progetti che cambieranno la natura del tessuto urbano e del paesaggio milanese. Ne parliamo con il Professor Gabriele Pasqui, docente di Politiche urbane presso il Politecnico di Milano.

Professor Pasqui, Lei è stato consulente del Comune di Milano “per la definizione di linee di intervento per la trasformazione degli scali ferroviari dismessi basate sul riconoscimento dell’apporto progettuale delle comunità locali”. Può spiegarci quali sono state le linee generali delle politiche urbanistiche che il Comune ha adottato in questo ambito.

Vale la pena di ricordare che quella degli scali è una vicenda molto lunga. Sono stati realizzati dalla Società Ferrovie nel corso di molti decenni nel Ventesimo secolo, quando rappresentavano un elemento fondamentale della logistica nel trasporto delle merci. Già a partire dagli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso gli scali sono stati usati sempre meno, perché i modelli di organizzazione spaziale della logistica sono cambiati, quindi, il modello del grande scalo è venuto meno. Per questa ragione a partire dai primi anni del Duemila Ferrovie dello Stato ha deciso di dismetterli e di accordarsi con il comune per renderli edificabili attraverso specifici strumenti urbanistici, affinché aumentassero il loro valore e potessero essere mesi sul mercato. La contrattazione è stata molto lunga: avviata dall’amministrazione di Letizia Moratti, è stata portata avanti dalla giunta Pisapia e chiusa da quella di Beppe Sala. L’accordo di programma raggiunto prevedeva che gli scali fossero sviluppati come un sistema, cosa che non si è poi realizzata in fase di attuazione, che ha visto in opera strumenti differenti. I lavori negli scali di Greco e Porta Romana sono già in fase attuativa.

I progetti per lo scalo di Greco e per quello di Porta Romana prenderanno la forma di “housing sociale”. In particolare, al piano per Porta Romana partecipa il Consorzio cooperative lavoratori (CCL), promosso dalle ACLI milanesi, con l’obiettivo di realizzare appartamenti in edilizia convenzionata ordinaria e in edilizia popolare. Cosa pensa di questa tipologia di progetto? Ritiene che questa modalità sia applicabile sistematicamente in altre aree del milanese un tempo occupate da capannoni e ciminiere? È lo strumento adatto per risolvere il problema abitativo di cui la città soffre?

Quando ci fu la discussione sugli scali ferroviari il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico, di cui faccio parte, collaborò con il Comune di Milano. La nostra opinione è stata accolta solo in parte dal Comune e si ritrova nell’accordo con FS: si proponeva di utilizzare gli scali per allargare l’offerta di edilizia a prezzi agevolati. Le varie forme di “housing sociale” non rispondono al bisogno abitativo delle fasce più deboli della popolazione: i prezzi proposti sono comunque molto più alti di quelli previsti dall’edilizia popolare. Gli operatori che intervengono nell’housing sociale, come le cooperative a cui si faceva riferimento e Fondazione Cariplo, svolgono un ruolo molto importante, che però non riesce a rispondere ai bisogni della fascia più bassa.

C’è poi la questione delle case per gli studenti. Il tipo di risposta che viene dal mercato risponde ancora una volta solo a una fascia alta: le stesse residenze realizzate da un operatore privato come Coima sugli scali ferroviari non rispondono ai bisogni degli studenti fuorisede con redditi medio-bassi o bassi. Quindi, la mia risposta alla tua domanda è che indubbiamente l’housing sociale è un pezzo della risposta, ma ci sarebbe anche bisogno di più investimenti pubblici, in particolare per le fasce a reddito più basso.

Non sembra che investimenti pubblici di questo tipo possano essere utilizzati per costruire nuove aree, visto che non sono rimasti molti spazi edificabili in città di Milano.

Ancora esistono degli spazi non edificati a Milano, che però dovrebbero essere lasciati a verde. Sono disponibili due strumenti: il primo è quello di lavorare sulle aree abbandonate, a questo riguardo gli scali rappresentano un’occasione in parte perduta. Altre città europee riescono ancora a costruire case popolari su aree dismesse. Si potrebbe pensare a trasformare in abitazioni caserme o addirittura uffici pubblici non più utilizzati: il patrimonio pubblico è largamente sottoutilizzato. Serve lavorare sia su un piano finanziario – il pubblico deve metterci più soldi – che su un piano progettuale e di regolamentazione.

Mi viene in mente un caso, slegato dalla questione abitativa, di un recupero di uno spazio andato a finire male: quello della cascina Cuccagna, un luogo nella cui ristrutturazione il Comune e le famiglie del quartiere hanno investito parecchio e che oggi è inaccessibile a larga parte degli abitanti, non solo a causa dei prezzi. Questo è quello che mi sembra il rischio più grande quando si va a riqualificare.

Noi veniamo da quarant’anni di discredito del pubblico. Si passa così alla privatizzazione di quelli che sono spazi pubblici, che diventano in questo modo posti esclusivi. La vicenda della cascina Cuccagna è la perfetta esemplificazione della rimozione di uno spazio da un uso pubblico allargato. Come riuscire nelle operazioni di riuso e di recupero a mantenere un controllo sociale su questi spazi? Si tratta di un problema gestionale, su cui c’è bisogno di un grande investimento non solo di denaro, ma anche cognitivo da parte dell’amministrazione.

Si tratta quindi di un problema di classe dirigente? Spesso all’interno di Sottosuolo ci siamo interrogati sulle manchevolezze che l’università ha nel formarci come classe dirigente. Che ne è della formazione da amministratore pubblico di cui l’università è responsabile?

Io credo che questo sia uno dei problemi più gravi. Ha due aspetti: uno è la politica. Abbiamo assistito a un suo depauperamento, che l’ha resa sempre meno capace di strategia. Il primo è quindi un problema di classe dirigente politica. C’è poi una questione molto pesante di ceto amministrativo, e qui vi è sicuramente una responsabilità delle università: è chiaro che se tu formi delle persone che non sono in grado di operare efficacemente all’interno della pubblica amministrazione questa si indebolisce. La pubblica amministrazione italiana è vecchia, assume pochi giovani e solo in forma precaria: c’è quindi anche un problema di rinnovamento delle capacità. In questo anche il Politecnico ci mette del suo: forse non siamo in grado di formare architetti e urbanisti che possano agire in modo efficiente all’interno delle pubbliche amministrazioni, questo anche perché tendiamo restituire l’idea che andare lavorare in un comune sia una pessima cosa. Si tratta di un problema culturale: un posto da dirigente comunale oggi non è più ambito come lo era un tempo, questo anche causa della disparità di retribuzione tra il tra settore pubblico e quello privato.

A proposito di pianificazione mancata, ritiene che la conformazione che storicamente la città di Milano ha assunto impedirà per sempre di avere una rete capillare e funzionante di piste ciclabili? Deve sapere che sta parlando a un gruppo di agguerriti ciclisti.

Il problema riguarda principalmente la parte centrale della città, la cui configurazione presenta i maggiori problemi. Per me la risposta ha tre filoni: primo, si devono togliere le macchine dalla città. Su questo ci vuole molto coraggio. L’uso dell’auto deve essere ridotto, di tutte le auto, anche di quelle elettriche, che occupano tanto spazio quanto quelle a benzina o a diesel. È quindi necessario rafforzare il trasporto pubblico: dobbiamo ragionare sia pensando a chi vive in città che alla questione del pendolarismo, dando a chi decide di entrare in città senza automobile delle alternative credibili. Viene poi la riorganizzazione del sistema delle piste ciclabili, che ad oggi non funziona. Si pensi al ponte della Ghisolfa, che rappresenta un esempio di grande difficoltà tecnica nella creazione di una pista ciclabile. É chiaro che è necessaria un po’ più di progettazione fine del sistema delle ciclabili. Io penso che in ogni caso un sistema di mobilità lenta non possa prescindere dalla riduzione della presenza di macchine in città, non solo attraverso incentivi e trasporto pubblico, ma anche con limitazioni, come quella di una “zona 30” estesa. Il problema della ciclabilità e i pericoli ad essa legati dipendono molto dalla velocità delle vetture, e il movimento dei ciclisti è emerso a causa del numero inaccettabile di incidenti gravi che si sono verificati.

La mancanza di pianificazione e l’assenza di strategia sembrano essere i più profondi tra i problemi emersi dalle risposte del Professor Pasqui: lo si è visto dalla mancata connessione dei rinnovati scali ferroviari in un sistema e dalle difficoltà manifestatesi nel tracciare una rete di piste ciclabili, così come dalla discussa questione abitativa che affligge la città di Milano. Una spiegazione è stata riscontrata nelle deficienze del ceto amministrativo. La perdita di attrattiva da parte dell’impiego pubblico, all’interno di un più generale depauperamento del senso dello Stato nella società italiana, ha causato il mancato rinnovo del personale amministrativo: ne è seguita una mancanza di adeguata capacità cognitiva, e quindi di conoscenza procedurale, altresì detta know-how, intesa in veste di conoscenza del “come” una certa operazione dev’essere correttamente eseguita o un problema gestionale risolto. Ma più di tutto la pubblica amministrazione soffre dell’assenza di interessi pubblici definiti a livello politico. È qui infatti che va individuata la causa dell’incapacità di funzionare come sistema da parte delle istituzioni: l’assenza di un indirizzo politico volto a delineare le politiche pubbliche mette in crisi la pubblica amministrazione, il cui compito dovrebbe essere quello di implementare tali programmi. Si pone così un problema, quello della classe dirigente, alla quale spetterebbe il compito di dare l’indirizzo politico, sia a livello locale che nazionale. Questa ha invece perso il suo potere di direzionare culturalmente e moralmente la società diffondendo il senso comune, prima di tutto a causa della crisi del suo luogo di formazione: l’università.