Tragica e controvoglia: la ricerca di una riconciliazione nazionale

Tragica e controvoglia: la ricerca di una riconciliazione nazionale

Il tema della coscienza nazionale italiana è molto complesso. La storia d’Italia è contraddistinta da tante fratture che hanno segnato il processo di costruzione di un sentimento nazionale. In Tragico controvoglia. Studi e interventi 1968-2022 – antologia di scritti che racchiude oltre sessant’anni di attività intellettuale – lo storico veneziano Mario Isnenghi ne individua alcune: i fatti di Bronte del 1860, il ferimento di Garibaldi sull’Aspromonte nell’agosto del 1862 e la breccia di Porta Pia del 20 settembre del 1870. A questi si aggiungono altri più tragici e destinati ad avere un impatto più duraturo nella memoria collettiva: la lotta al brigantaggio, Caporetto e la guerra civile del 1943-’45. Secondo Isnenghi, la storia italiana è intimamente tragica e puntellata da eventi fondatori traumatici. Nel dibattito pubblico, ancora oggi, questi sono fonte di accese discussioni e rinsaldano vecchie inimicizie. Gli anni passano, ma i vecchi rancori restano. Dal Regno alla Repubblica, l’Italia è stata lacerata da antagonismi e tensioni fra parti e controparti. La riconciliazione – sostiene Isnenghi – non dovrebbe essere con gli altri, ma con una storia d’Italia di cui gli altri fanno parte. Questa posizione è ampiamente condivisibile, ma apre molti interrogativi: da chi deve partire questo processo di riconciliazione? Chi si deve fare carico di questo: devono essere gli storici a occuparsene o è una faccenda che riguarda prettamente la politica?

Ricomporre le fratture provocate da un episodio tragico non è affatto facile. La tragedia, come ci spiegano i greci e gli studiosi delle tragedie greche, si dà quando due parti che si contrastano hanno entrambe ragione. La tragedia si verifica, dunque, quando lo scontro fra due polarità è incomponibile. Un esempio è la vicenda narrata nell’Antigone di Sofocle. Il nuove re di Tebe Creonte ordina con un editto che il corpo di Polinice, considerato un traditore, rimanga insepolto. Ma la sorella Antigone disobbedisce al decreto del re tebano per dare degna sepoltura alle spoglie del fratello, appellandosi alle leggi divine che impongono pietà per i morti. Il gesto coraggioso di Antigone sfida il potere di Creonte che non vuole concedere la sepoltura per motivi politici. Alle ragioni più evidenti della giovane Antigone, spinta nel suo nobile atto da motivazioni affettive e religiose, ci sono quelle meno evidenti, ma non meno importanti, di Creonte. La città e lo Stato hanno le loro prerogative, non a caso Hegel, a inizio Ottocento, vide dietro questo contrasto tra la giovane eroina e il re di Tebe il conflitto tra le esigenze della famiglia e quelle dello Stato.

Un’altra vicenda esemplare che riconduce al significato primigenio e più drammatico della tragedia è rappresentata dai fatti di Aspromonte. Siamo nel 1862, l’Italia è unita da solo un anno e hanno vinto i monarchici. Questi vorrebbero mettere idealmente fuori legge i repubblicani, i quali però hanno pensato l’Italia. L’Italia, è bene ricordarlo, è figlia di Mazzini e Garibaldi. Se il primo fu la mente dell’unificazione nazionale, il secondo fu l’uomo d’azione che la realizzò. A capo di qualche migliaio di volontari, l’eroe dei due mondi partì alla volta di Roma per scacciare Pio IX e annettere la città alla neonata nazione. Contro di lui e le sue truppe si mosse l’esercito regolare italiano, inviato dall’allora Presidente del consiglio Urbano Rattazzi. L’esercito del Paese che aveva fondato sparò a Garibaldi, che venne ferito ad una gamba e fatto prigioniero. Ci si potrebbe chiedere: potevano evitare di sparargli? Forse sì, ma il governo italiano voleva prevenire una possibile reazione da parte della Francia, che aveva impegnato truppe a difesa di Roma in accordo con il Papa. Questo portò allo scontro in Aspromonte, dove le forze italiane, nonostante Garibaldi fosse un eroe nazionale, aprirono il fuoco sulla sua colonna di volontari.

Questo episodio provocò una spaccatura significativa nella coscienza nazionale italiana. A pochi mesi dall’unità del Paese, due parti dello stesso si confrontarono armi alla mano. Lo stesso avvenne, ma in modo molto più lungo e cruento, tra il ’43-’45 durante la lotta di liberazione: fascisti da una parte e antifascisti dall’altra. La guerra che si combatté in quegli anni fu una vera e propria guerra civile, che vide contrapposti da ambo i lati degli italiani. Le violenze e le atrocità che si verificarono sono rimaste impresse nella memoria collettiva. Il dolore scaturito da eventi traumatici crea ferite che sono dure a rimarginarsi. Di questo ne era ben consapevole Nathaniel Hawthorne che nel suo celeberrimo testo La lettera scarlatta scrisse: “è insito nella nostra natura un dono meraviglioso e misericordioso, grazie al quale non comprendiamo sul momento l’intensità di quanto soffriamo, ma lo possiamo valutare solo più tardi, dalle tracce che la sofferenza lascia”.

La sanguinose contrapposizioni interne che hanno caratterizzato la storia d’Italia hanno provocato delle ampie fratture nel tessuto sociale nazionale. In modo particolare la guerra civile del ’43-’45 ha lasciato il segno più evidente e ancora oggi torna a far parlare di sé. La politica, lungi dal perseguire un programma di pacificazione, utilizza questa ferita ancora sanguinante per rinnovare la polemica. Dopo tanti anni di contrasti serve arrivare a una riconciliazione, ma pensare a chi può davvero operarla è cosa difficile a dirsi. Quando nella coscienza d’individuo si verificano degli eventi traumatici, spesso il singolo si affida a un percorso di terapia per affrontare e risolvere le lacerazioni lasciate dagli eventi dolorosi. Ma quando si guarda a una coscienza collettiva, chi può davvero offrire gli strumenti per riconciliare una storia conflittuale e tormentata?

La risposta non è semplice e sicuramente non può essere univoca. Allo stesso tempo, però, se non è così immediato individuare chi possa compiere questo lavoro, può essere più efficace comprendere chi potrebbe contribuire al suo perseguimento. Le figure più adatte possono essere gli storici. Per quale motivo? Perché lo storico è la figura che più di tutte ha una cognizione approfondita del passato e può, con la sua conoscenza, giocare un ruolo determinante nel raggiungere una riconciliazione tra le parti. Partendo dal presupposto che lo storico deve essere superpartes e nel proprio compito deve sempre essere interessato alla verità dei fatti, esso nondimeno può contribuire a dare avvio a una presa di consapevolezza e, di conseguenza, a un riconoscimento della conflittualità e tragicità della storia del Paese. Questa azione dello storico, che si può definire enzimatica, deve essere proseguita dalle istituzioni al fine di arrivare, una volta per tutte, a una vera riconciliazione che – come spiega Isnenghi – “non è con gli altri, ma con una storia d’Italia di cui gli altri fanno parte”. Sì, perché la storia italiana dal Regno alla Repubblica è fatta di parti e controparti che sono state protagoniste di molteplici tensioni e antagonismi. Se non si fa questo, il rischio – avverte Isnenghi – è quello di “rendere senza significato anche quella parte della storia collettiva di cui, sul piano personale, ciascuno di noi può maggiormente sentirsi discendente o parte”.

Lo spunto per questa riflessione sorge da un’osservazione del tempo presente, dove il dibattito politico è ancora infiammato dalle polemiche su queste vicende. In modo particolare la questione fascismo e antifascismo scalda gli animi e genera profonde tensioni. Questo dimostra come la situazione sia lontana dall’essere risolta. L’unico modo per riappacificarsi con quel periodo tragico sta nella volontà collettiva di comprendere quei tempi e le scelte dei suoi protagonisti. La tragicità di quello scontro, che vide contrapporsi italiani contro altri italiani, stava proprio in questo suo carattere di conflitto interno. Pur rimanendo un contrasto fondativo della nostra identità nazionale, dopo tutti questi anni serve riconciliarsi con questa storia conflittuale. L’unico strumento che può davvero tornare utile è la memoria. Strumento meno accomandante dell’oblio, questa permette di ricollegarsi con quei fatti e capire le ragioni che hanno portato molti cittadini fascisti e antifascisti a sostenere una causa piuttosto che un’altra. Se non c’è comprensione, c’è giudizio, e il giudizio divide e allontana. Per cogliere meglio il significato di una storia collettiva così dolorosa, serve guardare con occhi lucidi al passato. Una vera e propria riconciliazione nazionale può partire solo da una consapevolezza precisa di cosa è successo, senza rimozioni, edulcorazioni e giudizi.

Bibliografia

Mario Isnenghi, Tragico controvoglia: studi e interventi 1968-2022, Dueville, Ronzani, 2023

Claudio Pavone, Una guerra civile: saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1994.

Fare gli italiani: Pedagogia nazionale e beni culturali

Fare gli italiani: Pedagogia nazionale e beni culturali

La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

Costituzione della Repubblica Italiana, Art. 9

La questione della tutela e della valorizzazione dei beni culturali del nostro Paese occupa un posto di primaria importanza fin dalla stesura della nostra Costituzione, tanto da trovarsi proprio tra i suoi principi fondamentali, quasi un unicum tra le carte costituzionali europee. Già dalle poche righe di questo articolo e dalle parole accuratamente scelte si possono ricavare importanti informazioni: il termine Repubblica indica che il ruolo di promozione e di tutela coinvolge e responsabilizza qualsiasi istituzione della Repubblica, dunque non solo lo Stato, le province e gli enti pubblici, ma anche le organizzazioni private e soprattutto gli stessi cittadini, i quali vengono direttamente coinvolti nel ruolo di promotori dello stesso patrimonio artistico. Altro termine interessante da analizzare è Nazione. Definire il patrimonio storico e artistico come proprietà di quest’ultima connota un forte carattere identitario a prescindere dalla forma di governo e dalle limitazioni territoriali: i beni culturali nazionali, in base alla legge italiana, non cessano di far parte del nostro patrimonio quando si trovano all’estero.

Ad essere coscienti di tale ruolo di primaria importanza giocato dal patrimonio artistico italiano, simbolo di una comune coscienza nazionale, non sono stati solo i Padri Costituenti. Infatti, fin dalla fondazione del Regno d’Italia nel 1861, si pensò a come porre il patrimonio artistico sotto il controllo di un’autorità centrale a cui fosse affidata la cura e il restauro dei monumenti e, contemporaneamente, si cercò di portare sotto l’egida statale oggetti di interesse comune che, fino a quel momento, erano rimasti nell’ambito della proprietà privata. L’intento, dunque, era quello di sviluppare una comune coscienza nazionale attraverso una progettualità identitaria nel processo di valorizzazione e tutela del patrimonio artistico. In tal senso vennero presi una serie di provvedimenti: in Emilia Romagna, il governatore provvisorio delle ex Legazioni pontificie Luigi Carlo Farini istituì nel 1860, in accordo con il Ministro dell’Istruzione Pubblica Antonio Montanari, la Regia Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna. Lo scopo era quello di dare rilevanza pubblica e di registrare ufficialmente quei luoghi “ove esistono le raccolte di antichi documenti” e scegliere quelli che “possono concorrere ad illustrare la Storia Patria”, cioè quelli che hanno valore di bene culturale. Tali interventi costituiscono il nucleo fondante dei Musei dell’Emilia-Romagna.

Per il neonato Regno i monumenti nazionali furono un importante strumento propagandistico per l’affermazione del potere laico su quello ecclesiastico (dotato di un patrimonio culturale e artistico con cui era difficile competere) tanto che con un decreto del 1873 fu concesso allo Stato anche il diritto di espropriazione di edifici religiosi per scavi archeologici. Uno dei personaggi che più si occupò di esercitare il controllo dello Stato sui monumenti storici fu Cesare Correnti, ministro della Pubblica istruzione. Su sua iniziativa furono presi una serie di provvedimenti in questa direzione, come, ad esempio, la compilazione di una lista di monumenti da dichiarare nazionali, e che quindi furono acquisiti dallo Stato. Furono principalmente due gli immaginari su cui l’Italia postunitaria tentò di proiettare il patriottismo degli italiani: in un primo momento la memoria dei martiri della libertà italiana, rappresentata in tantissimi e diversi monumenti, successivamente l’antica Roma.

Le missioni archeologiche italiane in Libia di inizio Novecento si accompagnarono a una nuova assimilazione retorica dell’Italia con Roma, che servì a preparare il terreno per la conquista militare e politica della regione: i primi archeologi italiani, sotto la direzione di Federico Halberr, arrivarono in Libia già nel 1910, per ritirarsi dalla regione proco prima dello sbarco delle truppe italiane nel 1911. Questa nuova definizione dell’italianità, portata avanti soprattutto dai nazionalisti guidati da Enrico Corradini, si contrapponeva con le posizioni dei futuristi, capeggiati da Filippo Tommaso Marinetti, che nel loro manifesto, pubblicato nel 1909, avevano affermato: “vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquari”. Nonostante le posizioni dei futuristi, però, la guerra italo-turca del 1911-1912 aprì una nuova stagione in cui le sorti dell’archeologia si sovrapposero a quelle della colonizzazione. Durante questo periodo, l’antico contribuì al processo di legittimazione della conquista militare e, contemporaneamente, favorì una nuova sensibilità dell’opinione pubblica in patria nei confronti delle vestigia romane e consacrò in una dimensione mitica la brutalità del contesto bellico. La nuova definizione della coscienza italiana si realizzò attraverso una narrazione del mondo arabo basata su cliché dell’orientalismo e contrapposta a un mondo romano visto invece come portatore di creatività e ingegno. Il progetto politico della Libia si intrecciava così ad una presunta liberazione delle vestigia antiche, che, secondo i colonizzatori, portavano i segni di un lungo disinteresse da parte dell’Impero Ottomano.

Dopo la marcia su Roma del 1922, l’atteggiamento corradiniano nei confronti dell’antico venne ereditato dal fascismo, che adottò la romanità come modello con cui confrontarsi sia in patria che nelle colonie. In Italia, le campagne di scavo e di restauro condotte nell’Urbe riportarono alla luce un patrimonio simbolico e ideologico antico cui dare nuovi significati. Nelle colonie, la pervasività dell’archeologia nel supportare il progetto mussoliniano, ai fini di rigenerazione della coscienza nazionale italiana, si giocò sull’ideale della sempiterna pax romana. Roma si sostituì ad Atene come custode della civiltà europea, mentre la trasmissione della cultura latina, nuovamente illuminata dal fascismo, fu il mezzo attraverso il quale realizzare questo passaggio di testimone.

La musealizzazione delle antichità fu parte integrante di questo processo, come spiegò il soprintendente ai monumenti e scavi di Rodi Luciano Laurenzi in occasione della presentazione dell’attività svolta dall’Istituto storico-archeologico FERT nel 1934: “se si vuol dare ad un popolo la coscienza della sua civiltà è necessario mostrargli i monumenti che l’hanno creata, le testimonianze delle lotte sostenute per conquistarla”. A questo contribuirono non solo mostre e musei, ma anche l’uso massiccio di nuove tecnologie come la fotografia, che sovente immortalava soldati e vestigia, creando una forte connessione tra il passato e il presente.

Alla nuova coscienza italiana fascista, dunque, contribuì largamente l’archeologia, in quanto offrì al regime un patrimonio culturale che permise la mitizzazione del passato e accrebbe la contrapposizione con l’altro e, allo stesso tempo, fornì spazi e momenti opportuni per la diffusione della nuova italianità al grande pubblico.

Il fil rouge che lega i tre periodi storici – quello dell’età liberale, dell’Italia fascista e del secondo dopoguerra – è la formazione, fittizia o meno, di una coscienza italiana che passa anche attraverso il riconoscimento e la tutela dei beni culturali. Il passato sembra quindi conoscibile solamente attraverso una narrazione che deve essere priva di revisionismi e avvicinarsi quanto più possibile alla realtà storica. Solo così può crearsi un legame virtuoso e felice tra la storia di un territorio e i suoi abitanti e un riconoscimento individuale e collettivo di chi siamo stati e di chi saremo.

Bibliografia

Enrico Bottrigari, Cronaca di Bologna, vol. III, a cura di Aldo Berselli, Zanichelli, Bologna, 1960-1962

Marcello Barbanera, Il sorgere dell’archeologia in Italia nella seconda metà dell’Ottocento. In: Mélanges de l’Écolefrançaise de Rome. Italie et Méditerranée, tome 113, n°2. 2001. Antiquités, archéologie et construction nationale au XIXe siècle. Journées d’études, Rome 29-30 avril 1999 et Ravello 7-8 avril 2000. pp. 493-505

Cristiana Morigi Govi, Giuseppe Sassatelli, Daniele Vitali, Scavi archeologici e musei. Bologna tra coscienza civica e identità nazionale. In: Mélanges de l’École française de Rome. Italie et Méditerranée, tome 113, n°2. 2001. Antiquités, archéologie et construction nationale au XIX e siècle. Journées d’études, Rome 29-30 avril 1999 et Ravello 7-8 avril 2000. pp. 665-678

Massimiliano Munzi, L’epica del ritorno. Archeologia e politica nella Tripolitania italiana, L’Erma di Bretschneider, Roma, 2001

Marta Petricioli, Archeologia e Mare Nostrum. Le missioni archeologiche nella politica mediterranea dell’Italia 1898/1943, Valerio Levi Editore, Roma, 1990

Simona Troilo, Pietre d’oltremare. Scavare, conservare, immaginare l’Impero (1899-1940), Laterza, Bari, 2021

Simona Troilo, Ruines de Libye. Le regard sur les antiquités dans la propagande coloniale italienne (1911-1937), in “Revue d’histoire culturelle, n.6, 2023, pp 1-23

L’Italia e il suo mare: un Mediterraneo da riscoprire

L’Italia e il suo mare: un Mediterraneo da riscoprire

Aldo Moro, in una delle sue citazioni più famose, parlò di Mediterraneo ed Europa come due soggetti inscindibili tra loro, nell’espressione da lui usata ricorda come “l’Europa intera è nel Mediterraneo”, sottolineando come nessuno, men che meno l’Italia, dovrebbe scegliere se appartenere all’uno o all’altra; ma per quale motivo Moro sentì il bisogno di esprimersi così decisamente riguardo al Mediterraneo?  

Ai giorni nostri, ancor più che ai tempi della cosiddetta Prima Repubblica, è diventato imprescindibile trattare approfonditamente il Mediterraneo e la sua evoluzione per poter immaginare il futuro del nostro paese. Purtroppo ciò accade sporadicamente e in queste eccezioni difficilmente viene descritto adeguatamente il contesto geopolitico mediterraneo nel quale l’Italia si trova ad annaspare. Si tende a trattare superficialmente il Mediterraneo e le sue vicende, parlando sempre dell’Italia come soggetto passivo che subisce solamente, incapace di ritagliarsi un ruolo attivo e dinamico, un soggetto perennemente incompiuto che non riesce mai ad abbracciare fino in fondo la propria natura mediterranea; invece si cerca troppo spesso di accostarsi ed inserirsi in contesti lontani, geograficamente e idealmente, dalle necessità italiane, contesti narrati come vitali e imprescindibili per il futuro del paese anche se così non è. Da cosa nasce questa negligenza e distanza dal mare è ciò che desidero approfondire; nello specifico cercherò di spiegare, secondo ciò che ho potuto esaminare, quali sarebbero le cause storiche della distanza italiana dal suo mare. Per poter capire cosa sia oggi il Mediterraneo per l’Italia ho ritenuto pertinente parlare di un periodo storico specifico, definito da Egidio Ivetic nel suo Il Mediterraneo e l’Italia l’epoca della “Grande Italia”, che più di ogni altro sembrerebbe aver condizionato il rapporto tra il nostro paese e il mare.  

Per comprendere meglio la dimensione ed il legame tra la “Grande Italia” e il Mediterraneo è necessario accennare brevemente a quali furono le maggiori influenze che di volta in volta hanno segnato quest’epoca della nostra storia nazionale. Ogni Italia, repubblicana, liberale, nazionalista o fascista che fosse, nel rapportarsi con il mare incontra e ha incontrato sul suo percorso i due soggetti che più di ogni altro hanno plasmato il rapporto della penisola con il Mediterraneo: Roma e Venezia. 

Il peso specifico che queste due grandi città, che in differenti epoche fecero del Mediterraneo la loro ragion d’essere, hanno avuto sulla classe politica e sull’opinione pubblica italiana tra il 1908 ed il 1943, date convenzionali per identificare il periodo della “Grande Italia”, è stato enorme. Il primo accostamento tra l’idea di un’Italia geografica limitata ai confini riconducibili a quelli odierni risale alla Roma di Augusto; i romani, nati come potenza a vocazione prettamente terrestre, capirono in fretta come la posizione geografica della penisola italiana fosse ottimale per ottenere un dominio completo dell’intero Mediterraneo e si trasformarono in potenza anche marittima, riuscendo a raggiungere, ad oggi unici in questo, l’unità totale del bacino del Mediterraneo. Secoli dopo toccò a Venezia riscoprire a pieno questa dimensione mediterranea dell’Italia. La Serenissima più di ogni altra città marinara italiana e mediterranea visse il mare, propaggine della città e nucleo dell’esistenza dello “Stato da Mar” veneziano; l’impero mediterraneo veneziano non era solamente una pura e semplice necessità commerciale, bensì rappresentava molto di più, un’estensione dello Stato necessaria a proiettarne il potere in ogni angolo di quel mare. Non fu certamente un caso che proprio Venezia, maturata al fianco di Costantinopoli, riuscì ad ereditare quella dimensione marittima espressa da Roma, trasformando l’Adriatico in un “piccolo Mare Nostrum” esclusivamente veneziano, per secoli intoccabile anche da soggetti ben più potenti della città veneta. Con la scomparsa di Venezia svanì anche l’interesse per il mare per quasi un cento anni, e solo verso la fine del XIX secolo una riscoperta del Mediterraneo travolse il neonato regno. 

La sconfitta di Lissa nel 1866 e l’apertura del canale di Suez l’anno seguente furono i due eventi che segnarono la rinascita del navalismo – inteso come propensione di una nazione al suo essere marittima – in Italia. L’Italia riuscì in parte a riscoprirsi. Nonostante il fallimento di Lissa fosse di modeste proporzioni venne immediatamente vissuto come una terribile sconfitta in termini emotivi e retorici di molto sproporzionati. Dopo un decennio di vera e propria avversione per il mare quel “disastro” divenne la spinta per risvegliare il navalismo italiano. L’avvicinamento al mare fu strettamente collegato alle nuove scoperte geografiche, all’esistente ordine internazionale e all’apogeo dell’imperialismo europeo; il navalismo è il presupposto ideologico all’imperialismo e non fu un caso che proprio in quel periodo l’Italia iniziò a muovere i primi passi verso una nuova politica di potenza, ponendo le basi della “Grande Italia”, grande più per retorica e invocazione che per realtà dei fatti. L’idea del dominio del mare raggiunse nel paese la sua massima espressione tra il 1908 ed il 1943, date non casuali; secondo Egidio Ivetic l’alba della “Grande Italia” andrebbe individuata con la prima rappresentazione del dramma La nave di Gabriele D’Annunzio, esternazione di quell’ardente desiderio di potenza declamata e ricercata nell’Adriatico e nel Mediterraneo; mentre il tramonto di questo “sogno” di dominio marittimo viene collegato all’affondamento della nave da battaglia Roma il 9 settembre 1943, durante il suo viaggio verso i porti anglo-americani in seguito alla firma dell’armistizio. La perdita della massima espressione della produzione cantieristica italiana segnò simbolicamente la morte di ogni aspirazione di dominio nel Mediterraneo.  

Dal 1914 il mare, nello specifico l’Adriatico, divenne l’ossessione del Regno d’Italia; mare che più di ogni altro doveva ritornare italiano come ai tempi di Venezia. Il possesso dell’Adriatico avrebbe garantito un predominio economico, militare e politico su gran parte del Mediterraneo. Tuttavia il raggiungimento di tale obiettivo sarebbe derivato obbligatoriamente da uno scontro con l’impero asburgico e da un possibile scontro con i popoli slavi, i quali non nascondevano le proprie aspirazioni adriatiche. Il Mediterraneo, negli anni del primo conflitto mondiale, passò in secondo piano dato che il suo controllo era in mano agli alleati inglesi e francesi; durante il conflitto con Vienna l’Adriatico non vide quasi nessuna battaglia, rimanendo un fronte secondario. Dopo la resa austriaca e la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico, i timori italiani si avverarono con la comparsa dello stato jugoslavo, successore di Vienna in quel mare come rivale dell’Italia e erede dell’intera flotta asburgica, attaccata quindi dai reparti speciali italiani durante il passaggio di bandiera della corazzata Viribus Unitis al neonato regno. Nonostante il dominio italiano non fosse totale, Roma riuscì ad ottenere quantomeno un netto predominio sugli stati balcanici affacciati sull’Adriatico. Le promesse fatte dagli Alleati dell’Intesa all’interno del Patto di Londra non vennero mantenute, il controllo assoluto sull’Adriatico non si materializzò, suscitando l’indignazione dell’opinione pubblica italiana che valutava quello come un mare d’interesse vitale per il paese, ancor di più del Mediterraneo. 

In seguito all’ascesa di Mussolini e del partito fascista, la volontà di dominio sul mare non mutò, anzi prese toni più accesi. Sebbene la situazione di tensione nell’Adriatico non si estinse completamente, il regime concentrò le sue attenzioni sul Mediterraneo, considerato, dato il precedente romano del “Mare Nostrum”, lo spazio naturale e storico del paese. La romanità invocata dal partito andava di pari passo con la mediterraneità del paese: questo mare doveva essere un’unica cosa con l’Italia fascista, la sua parte allargata da controllare direttamente o indirettamente. Il dominio del Mediterraneo tanto invocato da Mussolini era inimmaginabile, nella realtà non esisteva alcuna possibilità di espansione: Londra controllava Suez, Gibilterra, Malta, Cipro e la Palestina, oltre ad avere relazioni strette con le potenze minori mediterranee; Parigi dominava il Mediterraneo occidentale, il Libano e la Siria. Roma dal canto suo controllava il Mediterraneo centrale, esclusa Malta, e il Dodecaneso, ponendosi trasversalmente rispetto all’asse ovest-est di dominio inglese. L’invasione dell’Etiopia e la successiva crisi dei rapporti con l’Inghilterra furono quindi la logica conseguenza dell’impossibilità di espansione nel bacino del Mediterraneo.  

La propaganda del regime spinse sulla necessità di creare una grande comunità imperiale nel “Mare Nostrum”, nella quale tutte le sponde del Mediterraneo sarebbero state, direttamente o indirettamente, sotto il controllo italiano. Molti dei territori da inglobare nell’Italia metropolitana rispecchiavano i possedimenti degli stati italiani nel 1750, con il Mediterraneo come fulcro del nuovo impero italiano. Il mediterraneismo fascista non era altro che un programma ideologico per preparare il popolo italiano a dominare, dall’alto della propria superiorità etnica e culturale latina, più declamata che realmente sentita, lo spazio mediterraneo. La guerra dal 1940 al 1943 fu un vero e proprio conflitto mediterraneo anglo-italiano, immaginato per anni ed infine esploso con l’ingresso italiano al fianco di Hitler. La drastica sconfitta della Marina italiana, tutt’altro che di secondo livello, aprì gli occhi e mise allo scoperto tutta quella fallimentare e pretenziosa retorica decantata per un ventennio. 

In seguito al fallimento bellico e all’ingresso nella Nato il paese non volle e non dovette più occuparsi di quel mare. Il Mediterraneo cadde sotto il controllo anglo-americano, precludendo a Roma ogni possibilità di indipendenza navale. Tralasciando il fattore strategico-militare della sconfitta nella Seconda guerra mondiale, furono la stessa mentalità italiana e il rapporto con il suo mare a subire un colpo devastante: l’Italia, nel processo di rigetto e chiusura della pagina del fascismo, abbandonò la dimensione marittima, che troppo ricordava quella retorica di dominio e controllo del mondo mediterraneo tanto propagandata negli anni della dittatura. Qui sorse il problema che ancora oggi affligge l’Italia: parlare di un interesse nazionale italiano nel Mediterraneo crea e ha creato parallelismi, molte volte insensati, con l’imperialismo fascista. L’Italia ha deciso sin dalla nascita della Repubblica di vivere il Mediterraneo con una postura da attore ormai comprimario, destinato ad assecondare passivamente le scelte degli altri soggetti. Una piccola eccezione ebbe luogo tra gli anni 50 e 60, quando, grazie a personaggi come La Pira, Moro, Mattei e Fanfani il paese cercò di ritagliarsi un ruolo di dialogo e collegamento con il mondo mediterraneo, tentando di risvegliare l’Italia dal torpore e dalla passività. Tuttavia, dopo questa breve parentesi, si ritornò al punto di partenza, continuando a subire passivamente, anche a scapito dei propri interessi, l’evoluzione del Mediterraneo. La natura mediterranea venne messa da parte a favore di un tentativo di avvicinamento alla dimensione atlantica e mitteleuropea. 

Ad oggi poco è cambiato, l’Italia rimane titubante ad accettare la propria natura mediterranea, ricercando invece l’appartenenza a contesti che solo parzialmente si accostano alle necessità italiane, non riuscendo a capire che la mutazione del contesto internazionale, con il lento disimpegno americano in diversi teatri, in parte anche da quello mediterraneo, darebbe la possibilità all’Italia di ritornare a vivere attivamente il mare da cui tanto dipende e che tanto influenzerà il futuro della nazione. Riscoprire l’interesse nazionale e la stessa coscienza mediterranea dell’Italia sarebbero sicuramente i primi passi verso un futuro meno incerto. 

Bibliografia: 

Egidio Ivetic, Il Mediterraneo e l’Italia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2022 

Patria o morte? L’8 settembre e la crisi della nazione

Patria o morte? L’8 settembre e la crisi della nazione

Settembre, 1992. Sono passati nove mesi dallo scioglimento dell’Unione Sovietica e sette dall’inizio di Mani pulite con l’arresto di Mario Chiesa. Fine della Guerra fredda e inizio della crisi della Repubblica dei partiti. Mentre nell’Europa centro-orientale si sta compiendo la rivincita dello stato nazionale, in Italia lo Stato repubblicano sta vivendo lo sconvolgimento più grave dalla sua fondazione. É in questo clima che Ernesto Galli della Loggia, non ancora editorialista del Corriere della Sera, decide di rivolgersi al pubblico del Convegno di Trieste su Nazione e nazionalità in Italia con una relazione dal titolo La morte della patria. Questa formula, il cui obiettivo è quello di esprimere la crisi dell’idea di nazione in Italia a seguito della tragedia dell’8 settembre, viene ripresa dal De profundis di Salvatore Satta, un testo carico di dolore, scritto tra il giugno del 1944 e l’aprile del 1945, nel quale l’autore riflette sulla disfatta italiana e sulla catastrofe della guerra civile. Alla conferenza di Galli della Loggia, poi pubblicata in volume dall’editore Laterza, fa seguito un proliferare di scritti sulla lunga crisi del sentimento nazionale italiano, tanto da far parlare Emilio Gentile – non senza una nota polemica – di un vero e proprio genere letterario della morte della patria. É però proprio questo “coro di lamentazioni patriottiche” a spingere lo storico molisano a pubblicare nel 1997 una storia del mito della nazione nell’Italia contemporanea. Pur rigettando l’attribuzione del suo testo a quell’osteggiata varietà, Gentile ammette che “alla pubblicazione del libro non fu estranea la lettura del genere letterario della «morte della patria»”. In effetti, il suo obiettivo è proprio quello di moderare e correggere quelli che considera i frettolosi giudizi emersi negli anni precedenti. Intento opposto a quello di Galli della Loggia, che invece vuole esattamente dare il là a un dibattito pubblico sull’idea di nazione italiana. Ci troviamo così di fronte a due storici contemporanei, separati da differenze di metodo e di intenzione, che nel loro ruolo di intellettuali intervengono su una questione di (massimo) pubblico interesse, innescando una disputa a distanza. É possibile sviluppare un confronto tra le due posizioni intorno alla valutazione data dai protagonisti al ruolo svolto da tre fattori: l’8 settembre, il Partito comunista e la Democrazia Cristiana.

Il giudizio riguardo la catastrofe dell’8 settembre è sostanzialmente concorde. Lo “spettacolo della dissoluzione dello Stato” all’indomani della proclamazione dell’armistizio, incarnato dallo sbandamento dell’esercito e dalla fuga del Re, è ciò che ha prodotto la disgregazione dell’identità nazionale, rappresentata dall’idea dell’Italia come grande Stato nazionale ereditata dal Risorgimento. Vi sono comunque due elementi di distinzione: se Galli della Loggia non esita a vedere specificamente nell’8 settembre lo spartiacque tra le due fasi della storia dello Stato, in quanto “simbolo del fallimento rovinoso in cui è destinata ad incorrere qualsiasi risposta” ideologica alla domanda riguardo la possibilità per gli italiani di essere nazione, Gentile è indubbiamente più cauto. Egli attribuisce infatti tale ruolo di cesura al combinato disposto degli eventi del triennio 1943-46: solo nel loro insieme “trascinarono nella rovina anche la fragile identità nazionale che, pur con tutti suoi limiti, ambizioni e illusioni, gli italiani avevano conquistato durante gli otto decenni di vita unitaria”. Vi è infine il ruolo della desolante disintegrazione dell’esercito, su cui Galli della Loggia si concentra molto di più e a cui dà un significato prima di tutto morale, in quanto immagine “della rinuncia a battersi, della resa alla paura, del disintegrarsi della volontà e della capacità di durare e resistere da parte dello Stato”. Gli unici attori rimasti a poter interpretare la coscienza nazionale erano i partiti antifascisti, ritrovatisi padroni delle macerie dello Stato.

É sulla valutazione del ruolo di questi che le posizioni tra i due storici differiscono: se Galli della Loggia ne descrive l’azione come sostanzialmente antinazionale, Gentile è più disposto a sottolinearne il recupero di alcuni aspetti della tradizione patriottica italiana. Il primo nota una ambiguità di fondo comune a tutti i partiti della Resistenza, i quali si sono presentati come i vincitori al termine di una guerra che il Paese aveva perso: va infatti notato “il carattere nazionale, e non già fascista, che la sconfitta ebbe agli occhi degli Alleati, e che quindi ad essa va anche storicamente attribuito”, confermato dall’iniquità del Trattato di pace. A ciò si aggiunge il rifiuto da parte della Resistenza di accettare l’espressione guerra civile, che non è stato altro che “il tentativo – in tutto e per tutto analogo a quello fascista, ma solo rovesciato di segno – di confiscare a vantaggio di una sola parte l’idea di nazione”, causa del fallimento da parte della stessa nel divenire un mito di fondazione adeguato per il rinnovato Stato da innestare nell’identità nazionale. Diversamente, pur riconoscendo “una progressiva estraniazione degli italiani dal mito nazionale” perpetrata dalla Repubblica nata dalla Resistenza, Gentile individua al suo interno due difensori dell’idea di nazione: il Partito comunista e il mondo cattolico.

Vediamo il primo: facendo uso delle riflessioni di Gramsci sulla storia e sulla cultura d’Italia, il PCI avrebbe costruito una “mitologia nazionalcomunista”, che si sarebbe presentata come una nuova forma di italianismo: l’arrivo al governo da parte dei comunisti sarebbe stato il compimento della rivoluzione nazionale iniziata dal Risorgimento, la cui classe dirigente liberale avrebbe lasciato il testimone all’intellettuale organico gramsciano. Ma, sempre a parere di Gentile, è stato l’antifascismo l’elemento attraverso il quale il Partito comunista ha legato maggiormente se stesso al destino della nazione: “il monopolio dell’antifascismo e dello «spirito della Resistenza» fu la condizione per rivendicare il mito nazionale”. Da una rappresentazione patriottica del comunismo italiano non potrebbe essere più lontano Galli della Loggia, che vede nella decisione di Togliatti di schierarsi dalla parte della Jugoslavia sulla questione dell’Istria e della Venezia-Giulia l’espressione più chiara della pulsione contraria all’interesse nazionale italiano proveniente dal PCI. In generale, l’azione del Partito comunista in veste di agente di prossimità di un paese straniero, l’Unione Sovietica, avverso agli interessi nazionali italiani, avrebbe contribuito all’incapacità della Resistenza di “acquisire compiutamente la dimensione nazional-patriottica che, allora come oggi, sarebbe stata necessaria perché essa potesse divenire davvero matrice di «memoria condivisa» per tutti gli italiani”. Più in generale, “la disintegrazione della statualità italiana seguita all’8 settembre creò uno scenario non solo di tipo preunitario, ma […] addirittura seicentesco, nel quale tutti gli attori politici nazionali si trovarono costretti […] a rappresentare ciascuno uno straniero, a doversi identificare in misura maggiore o minore con uno di essi”.

Venendo al mondo cattolico, Galli della Loggia individua nel tentativo da parte della Democrazia Cristiana, fin dal momento della presa di possesso dello Stato, di rendere la comune fede religiosa il collante nazionale, in sostituzione degli ideali risorgimentali, un’amputazione dell’originale idea di nazione italiana. Al contrario, Gentile vede nello sforzo cattolico di conquistare l’italianità, anche attraverso la valorizzazione della componente neo-guelfa del Risorgimento, come un autentico tentativo di ricostruire l’identità nazionale. Un tentativo comunque destinato a fallire, in quanto la “subordinazione dell’identità nazionale all’ideologia del partito fu certamente una delle principali cause che impedirono all’Italia repubblicana di avere un mito nazionale, a prescindere dalla militanza politica”. Gentile esprime così un punto con il quale Galli della Loggia non potrebbe che assentire: “I partiti dell’Italia repubblicana non riuscirono a coltivare e trasmettere agli italiani la coscienza nazionale, l’amor di patria, il senso dello Stato, coniugandoli con i valori della democrazia sociale”.

In conclusione, ci sembra questo il più grave peccato dello Stato repubblicano: non aver saputo definire univocamente l’interesse nazionale, la ragione di Stato, i valori non negoziabili della nazione. Solo in questi si può formare una classe dirigente adeguata, in primo luogo una burocrazia statale funzionante, la quale dovrebbe fare riferimento alla sola cultura della nazione – intesa come spazio non negoziabile di valori – e perciò percepita come rappresentante dell’interesse generale. Tale spazio valoriale va cercato all’interno della nazione stessa, attraverso il dibattito pubblico e accademico: è questo il caso della disputa a distanza tra Ernesto Galli della Loggia ed Emilio Gentile. Un dibattito non a caso avvenuto al tramonto di quel controllo egemonico sullo Stato chiamato Repubblica dei partiti, alba mancata di un nuovo patriottismo democratico.

Bibliografia

Ernesto Galli della Loggia, La morte della patria, Laterza, Roma-Bari, 1996

Emilio Gentile, La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo (1997), Laterza, Roma-Bari, 2006

Salvatore Satta, De profundis (1948), Adelphi, Milano, 1980

L’epopea di Gilgamesh e la nascita della città. Un dibattito storiografico

L’epopea di Gilgamesh e la nascita della città. Un dibattito storiografico

L’epopea di Gilgamesh si apre con l’episodio del selvaggio Enkidu, creato dalla dea Araru come controparte del re di Uruk Gilgamesh, il quale rappresenta l’uomo civile. Enkidu vive in armonia con la natura finché non giace con Shamhat, mandata per civilizzarlo. Appagato dall’incontro con la donna, Enkidu torna nella natura selvaggia ma si accorge ben presto che la sua connessione con essa si è affievolita. Il selvaggio torna quindi da Shamhat, che gli racconta della città di Uruk, dove gli uomini non usano solamente la forza ma anche il cervello, e lo convince ad andare lì. Prima di arrivare nella città, però, Enkidu viene addomesticato: Shamhat gli fa mangiare pane e bere birra, e “il barbiere rasò il suo corpo villoso / unto con olio si trasformò in uomo”. Sebbene il legame tra città e civiltà, sottolineato dal testo così come dall’etimologia stessa della parola “città” (derivante dal latino civitas), sia un concetto evoluzionistico non più interamente condivisibile, ciò che appare chiaro è che la città non sia mai stata percepita esclusivamente come luogo fisico.

La città di Uruk (odierna Warka) di cui si parla nel mito è una delle città più antiche mai portate alla luce, considerata da molti la più antica conosciuta. I dati archeologici provenienti dai livelli V e IV rappresentano, infatti, le più antiche testimonianze di un’organizzazione sociale considerata di tipo urbano. Per questo motivo, quando si parla di rivoluzione urbana e della nascita delle prime città ci si riferisce in primis alla Mesopotamia (odierno Iraq) tra la fine del IV e gli inizi del III millennio BCE. Nasce così il quesito di quali siano i criteri per definire urbano un agglomerato e si sviluppa il dibattito sui processi attraverso i quali si è giunti all’urbanizzazione.

Un primo rilevante tentativo in questa direzione è l’articolo di Vere Gordon Childe The urban revolution, apparso nel 1950 sulla rivista “The Town Planning Review”. Forte è l’influenza dell’evoluzionismo, in quanto Childe spiega la nascita della città come il risultato della rivoluzione urbana, che avrebbe traghettato l’umanità da uno stadio di barbarism (identificato con il periodo dei cacciatori-raccoglitori) a quello di civilization. Forte è anche l’approccio diffusionista dell’autore, che vede come primarie solo le urbanizzazioni di Mesopotamia, Egitto, valle dell’Indo e America centrale, mentre le altre sarebbero sorte attraverso processi di diffusione. Childe propone dieci criteri per definire una città, tra cui la dimensione insediamentale, la specializzazione lavorativa a tempo pieno, la stratificazione sociale e la scrittura. Nonostante oggi l’approccio evoluzionista e quello diffusionista siano stati ridimensionati, Mario Liverani in Immaginare Babele. Due secoli di studi sulla città orientale antica sottolinea due meriti di Childe: la verificabilità archeologica dei dieci criteri proposti e la loro applicabilità a qualsiasi contesto storico, archeologico e sociale.

A partire dagli anni ’50, molti sono stati i tentativi di ridefinire il concetto di urbano e le proposte che ne sono nate sono sempre state legate alle scuole di pensiero cui facevano parte gli accademici.

Nell’articolo del 2013 The first towns in the central Sahara di David J. Mattingly e Martin Sterry, gli autori dimostrano come nel Sahara libico esisteva un network di insediamenti nelle oasi (datati fra il 300 BCE e il 500 CE) che, pur non rispecchiando i criteri tipici della Mesopotamia, possono comunque essere definiti urbani. Gli autori sottolineano come lo sviluppo in senso urbano delle civiltà non sia inevitabile e che le città possono presentarsi in modi diversi a seconda del contesto storico e geografico in cui sono inserite. Per quanto riguarda queste città-oasi nel Sahara, il ruolo del commercio sembra essere stato il fattore trainante della loro urbanizzazione.

Un altro articolo di notevole interesse è Introduction. The many dimensions of the “city” in early societies di Marcella Frangipane (2018). Il testo esplora la varietà nelle relazioni tra stato e città in diverse regioni e periodi storici, evidenziando le differenze nei modelli stessi di città. Le città variavano nelle dimensioni, nella popolazione, nell’organizzazione funzionale e spaziale, nelle caratteristiche delle aree pubbliche e di élite, nonché nel grado di opposizione tra l’identità cittadina e quella rurale. Tuttavia, l’autrice sostiene che sono le caratteristiche relazionali – come le differenze e interazioni interne, la concentrazione delle funzioni, l’integrazione di settori diversi e i legami con il territorio in una vasta rete di relazioni economiche e politiche reciproche – a costituire l’essenza stessa della città. La città viene quindi a presentarsi come una realtà dinamica.

Ciò che caratterizza le città non sono, pertanto, solamente i luoghi fisici ma soprattutto le interazioni sociali che influenzano gli abitanti, le quali hanno generato idee, tecniche, rivoluzioni e innovazioni. Questo si verifica anche oggi: contrariamente, infatti, alla tendenza in atto dalla metà del Novecento, solo negli ultimi anni ci si è resi conto che le reti sociali urbane non possono essere sostituite dalle reti sociali virtuali, e quindi le città sono tornate ad essere luoghi che attirano nuovi residenti, indipendentemente dall’auspicabilità o meno del fenomeno.

Per tornare all’epopea di Gilgamesh, il re di Uruk, accompagnato da Enkidu, ricerca l’immortalità: questo lo porterà al cospetto di Utanapištim, uomo che l’ha ricevuta dagli dèi dopo essere scampato al diluvio universale su un’arca insieme alla sua famiglia e mettendo in salvo le specie animali e vegetali. Gilgamesh capisce, però, che la morte è una condizione inevitabile. Questa ricerca, tuttavia, non è vana, perché come fa notare Ben Wilson nel saggio Metropolis. Storia della città, la più grande invenzione della specie umana: “Dopo le traversie della sua ricerca e il rifiuto della civiltà, [Gilgamesh] fa ritorno nella sua città e acquisisce finalmente la vera consapevolezza: i singoli individui sono destinati a morire, ma la forza collettiva del genere umano sopravvive attraverso gli edifici che costruiscono e la conoscenza che incidono su tavolette di argilla”. Se il primo numero di Sottosuolo è dedicato al tema della città è perché, forse, siamo eredi della lezione di Gilgamesh.

Bibliografia

Childe, V. Gordon, The Urban Revolution, in “The Town Planning Review”, 1950, n. 21.1, pp. 3-17

Frangipane, Marcella, Introduction. The Many Dimensions of the “City” in Early Societies, in “Origini”, 2018, n. XLII, pp. 13-24

George, Andrew (a cura di), Gilgamesh, Adelphi, Milano, 2021

Liverani, Mario, Immaginare Babele. Due secoli di studi sulla città orientale antica, Laterza, Roma-Bari, 2013

Mattingly, David J., Sterry, Martin, The First Towns in the Central Sahara, in “Antiquity”, 2013, n. 87, pp. 503-518

Mumford, Lewis, The City in History, Harcourt, San Diego-Londra-New York, 1961

Wilson, Ben, Metropolis. Storia della città, la più grande invenzione della specie umana, Il Saggiatore, Milano, 2021