Martin Heidegger e Ludwig Wittgenstein, due tra i pensatori più influenti del Novecento, hanno vissuto una simile spinta ad allontanarsi dal rumore della città per rifugiarsi in luoghi isolati ed immersi nella natura. Tale scelta, chiaramente anti-urbana, ha come modello la capanna/manifesto di Henry David Thoreau (1817-1862), filosofo americano appartenente alla corrente trascendentalista, che all’età di 27 anni decise di ritirarsi in una piccola capanna dieci per quindici sul lago Walden, in Massachusetts.
Thoreau si isola per due anni, due mesi e due giorni nei boschi, dove affronta inverni rigidissimi e scrive un resoconto autobiografico dell’esperienza, pubblicato poi con il titolo Walden (1854).
Questo luogo/manifesto è il risultato di un’intuizione. Thoreau riconosce lo spirito del tempo, si rende conto che il XIX secolo è quello dell’esplosione urbana, come mostrano i casi di Londra, Parigi e Chicago. La città – rumorosa, caotica ed alienante – è il luogo da cui fuggire per ritrovare sé stesso attraverso l’isolamento e la semplicità. Come scrive Thoreau:
Conosco solo me stesso come entità umana; la scena per così dire, dei pensieri e degli affetti, e sono sensibile a una certa doppiezza con la quale posso rendermi distante da me stesso come da un altro. […] Non ho mai trovato un compagno che mi desse tanta compagnia come la solitudine.
Henry David Thoreau
Martin Heidegger (1889 – 1976) nel 1922 fece costruire una piccola capannanella Foresta Nera, vicino a Todtnauberg, e rimase per tutta la sua vita il luogo in cui ritirarsi. In un breve discorso radiofonico, poi pubblicato con il titolo Perché resto in provincia (1934), ce ne fornisce direttamente una descrizione:
Sul ripido pendio di una vasta valle montuosa nella parte meridionale della Foresta Nera, ad un’altitudine di 1.150 metri, si erge una piccola baita da sci. La planimetria misura sei metri per sette. Il tetto basso copre tre stanze: la cucina, che funge anche da sala da pranzo, una camera da letto e uno studio. Sparse a distanze regolari lungo la base stretta della valle e sullo stesso ripido pendio di fronte, si trovano le case contadine con i loro grandi tetti sporgenti. Più in alto sul pendio, i prati e i pascoli conducono al bosco con i suoi alberi di abete scuri, vecchi e maestosi. Sopra tutto si staglia un cielo estivo limpido, e nel suo spazio radioso due falchi volteggiano in ampi cerchi. Questo è il mio work-world.
Martin Heidegger
Nel testo Heidegger mostra come la motivazione della sua scelta di rimanere ad insegnare a Friburgo, rinunciando alla ambitissima cattedra di Filosofia nell’università di Berlino, sia proprio la sua capanna. Heidegger sperimenta lo stesso slancio anti-urbano di Thoreau, perché è proprio stando a contatto con la natura che è possibile produrre un pensiero realmente filosofico. Sarà, non a caso, proprio questo il luogo in cui scriverà Essere e tempo (1927). Il contatto con la natura non ha nulla a che fare con l’esperienza romantica caratterizzata dalla ricerca di un’estetica nei panorami puri ed incontaminati, ma è un’immersione reale e totale nelle cose e nelle persone delle montagne. Il presupposto di questa esperienza, che non a caso ritroviamo anche in Thoreau, è l’isolamento. Con le parole di Heidegger:
Le persone in città spesso si chiedono se si provi solitudine stando nelle montagne tra i contadini durante periodi così lunghi e monotoni. Ma non è solitudine, è isolamento. Nelle grandi città si può essere facilmente soli come quasi ovunque altro. Ma lì non si può mai essere isolati. Essere isolati ha il potere peculiare e originale non di isolare noi stessi, ma di proiettare la nostra intera esistenza nell’ampia vicinanza della presenza [Wesen] di tutte le cose.
Martin Heidegger
Come ogni grande intellettuale, Heidegger fa della sua vita un atto pratico della sua filosofia. Ed è per questo che bisogna indagare alcuni aspetti centrali del suo pensiero per comprendere il perché della capanna.
Heidegger è uno dei principali pensatori della Tecnica, che diventa per lui una chiave attraverso la quale rileggere tutta la storia del pensiero Occidentale. Il filosofo, infatti, ritrova nel pensiero platonico l’origine del pensiero metafisico e tecnico che domina la filosofia fino al Ventesimo secolo. Nella sua opera filosofica Platone identifica un dualismo radicale tra il mondo quotidiano e il mondo delle Idee, introducendo così un pensiero utilitaristico che inquadra gli oggetti che ci circondano in una dinamica mezzo/fine. Eliminando ogni valore all’ente in sé, l’albero guadagna un valore esclusivamente come strumento nelle mani dell’Homo Faber.
Heidegger valorizza il pensiero dei presocratici, non ancora “sottomesso” alla narrativa metafisica e tecnica. Una Physis pensata come l’Essere, ovvero ciò che si manifesta da sé e spontaneamente, che viene alla presenza e viene lasciato essere da un pensiero “aurorale” e non tecnico.
La dimenticanza dell’Essere, infatti, permette all’essere umano di concentrarsi esclusivamente sull’ente, e quindi di rimanere vincolato a quel progetto capillare e vorace di assoggettamento del mondo esterno. Il pensiero dell’Heidegger degli anni Venti e Trenta, infatti, ripensa l’essere umano nella sua progettualità, finitezza e limitatezza per cercare di allontanarsi dal dominio della tecnica.
Un altro grande sforzo della filosofia heideggeriana è ripensare l’Abitare. Già in Essere e Tempo (1927) Heidegger mostra come “essere nel mondo” sia un esistenziale dell’Esserci [Dasein]. Lo spazio non è un contenitore in cui ci muoviamo, né uno spazio matematico ed isolato, ma la spazialità viene colta proprio grazie a quel “ci” dell’Esserci. Il “ci” mostra l’Esserci nella sua fattualità e nella sua gettatezza, e la spazialità è pensata come la modalità assolutamente peculiare dell’uomo di essere nel mondo.
Nell’opera Abitare, Costruire e Pensare (1951), grazie ad una lunga e minuziosa ricostruzione etimologica, Heidegger riesce a dissolvere l’opposizione che tendenzialmente ritroviamo tra abitare e costruire. Scrive:
Bauen (costruire), buan, bhu, beo sono infatti la stessa parola che il nostro bin (sono) nelle sue varie forme: ich bin (io sono), du bist (tu sei), la forma imperativa bis, sii. Che significa allora: ich bin, io sono? L’antica parola bauen, a cui si ricollega il «bin», risponde: «ich bin», «du bist» vuol dire: io abito, tu abiti. Il modo in cui tu sei e io sono, il modo in cui noi uomini siamo sulla terra, è il Buan, l’abitare. Esser uomo significa: essere sulla terra come mortale; e cioè: abitare.
Martin Heidegger, Abitare, costruire e pensare
L’abitare non è solo un’attività posteriore alla costruzione, ma è la modalità propria dell’uomo di essere nel mondo. L’uomo, il mortale, è in quella che Heidegger definisce Quadratura, ovvero il rapporto tra Mortali, Divinità, Terra e Cielo. Proprio in questo testo Heidegger porta come esempio di questa modalità dell’abitare la sua capanna, perché “ciò che ha edificato la casa è stata la persistente capacità di far entrare nelle cose terra e cielo, i divini e i mortali nella loro semplicità (einfältig)”.
Quella capanna così cara ed importante per Heidegger, in cui poter vivere isolati ed in contatto con le cose è un invito a tutti gli uomini a ripensarsi. L’obiettivo è comprendere la propria limitatezza e confrontarsi con questo dolore per poter poi vivere non abusando di ciò che ci circonda. Se ci si riesce, si è in grado di esperire quella meraviglia davanti a ciò che semplicemente esiste, e che unisce Heidegger al prossimo pensatore: Ludwig Wittgenstein.
Ludwig Wittgenstein (1889 – 1951) cresce a Vienna nella famiglia più ricca di tutto l’impero austroungarico, ma la sua vita fu tutt’altro che agiata. Da giovane decide di rinunciare al patrimonio familiare, come un San Francesco laico, e nonostante fosse l’allievo più geniale di Bertrand Russel a Cambridge, e avesse quindi la possibilità di fare una tranquilla vita da professore, rinunciò anche alla cattedra. Nella vita Wittgenstein fece i lavori più disparati: soldato nella Prima guerra mondiale, giardiniere, aviatore e maestro elementare in alcuni paesini austriaci. Nel 1913, nonostante le critiche mosse da Russell, decise di andare per qualche mese a Skjoden, un piccolissimo paesino in fondo al fiordo più a Nord della Norvegia. Non esattamente un posto accessibile. In quel periodo delineò le basi dell’unica sua opera pubblicata in vita, destinata a cambiare il mondo filosofico e non solo: il Tractatus logico-philosophicus (1921). Durante la Prima guerra mondiale affida la costruzione della capanna agli abitanti del paese, e dal 1921 fino alla sua morte continuerà a visitarla ad intermittenza. La capanna è minuscola, molto povera e poco raggiungibile, dato che è separata dal paesino da un lago spesso ghiacciato. Non è mai stata una residenza permanente per lui, ma ha sempre funzionato come un rifugio sia dalla sua vita professionale sia da quella personale.
Il sogno condiviso della capanna come luogo in cui rifugiarsi, lontana da tutto e tutti, anti-urbana per eccellenza, vicina alla Natura unisce tre autori spesso considerati lontani. La capanna è architettonicamente pura ed elementare, spoglia di ogni decorazione, tanto da essere l’archetipo per ogni disegno infantile di una casa. Solo quattro linee e un tetto, questo è tutto ciò che è necessario per vivere. Un’architettura opposta ai complessi ed ingombranti grattacieli che da ormai due secoli si elevano fieri nelle nostre città. La semplicità diventa una forma di resistenza ad un modello che vede nella quantità una misura di valore. Viviamo circondati di oggetti che, anche se consideriamo fondamentali, necessari non sono. La scelta di spogliarsi da ciò che è superfluo è una scelta di resistenza molto evidente. Thoreau poteva tranquillamente insegnare, Heidegger poteva andare a Berlino e Wittgenstein poteva vivere una vita agiata tra Vienna e Cambridge, ma tutti e tre intorno ai 27 anni fanno la difficile scelta di isolarsi, vivere a contatto con il bosco e ciò che fornisce.
Il bosco porta con sé un modello di temporalità molto preciso: il qui ed ora. Nel bosco lo spazio e il tempo coincidono e la capanna fa coincidere costruire ed abitare, come ha mostrato Heidegger. Proprio questa temporalità così particolare, lontana dalla costante angoscia per il futuro che la città produce, permette di vivere davvero. Con le parole di Thoreau:
Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per scoprire, in un punto di morte, che non ero vissuto. […] Volevo vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa, vivere da gagliardo spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita, falciare ampio e raso terra e mettere poi la vita in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici.
Henry David Thoreau
Non a caso questa riflessione si conclude riferendosi alla Semplicità. Il bosco, secondo Thoreau, permette di poter distinguere ciò che vuol dire davvero vivere, vivere in maniera autentica direbbe Heidegger. Per arrivare “al midollo” è necessario proprio questo processo di semplificazione radicale, ed una volta arrivato al succo diventa ancora più evidente quanto fossero superflue le cose a cui eravamo legati. Ritornare in sé per poter vivere quella meraviglia che, oltre ad essere alla base della filosofia, è un aspetto fondamentale sia per Heidegger che per Wittgenstein. Wittgenstein fu forse l’autore che nel corso del ‘900 si concentrò di più sul rapporto tra il dicibile e l’indicibile. Allontanandosi dalla posizione del Circolo di Vienna, accoglie il sentimento come parte di quel non dicibile, che anche se non ha una funzione propriamente conoscitiva, è strettamente umano. In particolare, in Lecture on Ethics (1965) parla di una Meraviglia che le cose semplicemente siano, piuttosto che Nulla. Non che il cielo al tramonto sia rosso o viola, ma che esso semplicemente sia, “comunque esso sia” (Heidegger, 2001, p. 21).
Anche Heidegger parla della stessa meraviglia quando scrive: “Unico fra gli enti, l’uomo, chiamato dalla voce dell’essere, esperisce la meraviglia di tutte le meraviglie: che l’ente è”.
Quella meraviglia che ha dato origine alla filosofia, che non è semplice stupore, ma con le parole di Socrate: meditatio mortis. La capanna, con la sua semplicità, porta a confrontarsi con la morte, con il dolore, con la solitudine e le sofferenze. Quel dolore che appartiene al regno dell’indicibile, ma che nonostante questo è centrale per vivere, “essere per la morte” come chiave per comprendere davvero l’Esserci.
Il modo migliore per concludere l’articolo è lasciare parlare direttamente Martin Heidegger:
Ma la benevolenza del sentiero di campagna parla così a lungo finché vi sono uomini che, nati nelle sue vicinanze, sono capaci di ascoltarlo. Essi sono all’ascolto della loro origine, ma non sono schiavi di macchinazioni. L’uomo, quando non si affida alla benevolenza del sentiero di campagna, cerca vanamente di assoggettare con i propri piani il globo terrestre. Minaccioso incombe il rischio che gli uomini d’oggi rimangano pressoché sordi al suo linguaggio. Sono prigionieri del chiasso delle macchine, che quasi confondono con la voce di Dio. Così l’uomo si distrae e vaga privo di un sentiero. A coloro che si trovano così distratti e smarriti, il Semplice appare uniforme. L’Uniforme provoca sazietà e disgusto. Chi si sente sazio trova unicamente ciò che è monotono e indifferente. Il Semplice è fuggito. La sua forza silenziosa si è inaridita. È vero, si riduce rapidamente il novero di coloro, che ancora conoscono il Semplice come qualcosa che è loro Proprio. Ma i pochi saranno, in ogni dove, quelli che restano. Grazie alla mite violenza del sentiero potranno durare più a lungo delle forze gigantesche dell’energia atomica che il calcolare umano ha strappato alla natura, fino a renderla la catena del proprio agire.
Martin Heidegger
BIBLIOGRAFIA
– Henry David Thoreau, Walden Ovvero Vita Nei Boschi, Rizzoli, Milano, 1988
– Leonardo Caffo, Quattro Capanne, nottetempo, Milano, 2020
– Ludwig Wittgenstein, Conferenza sull’etica, in Lezioni e Conversazioni, Adelphi, Milano, 1967
– Martin Heidegger, Che cos’è metafisica, Adelphi, Milano, 2001
– Martin Heidegger, Essere E Tempo , Longanesi, Milano, 1976
– Martin Heidegger, Costruire Abitare Pensare, in Saggi e Discorsi, Mursia, Milano, 2015
– Martin Heidegger, Perchè Resto In Provincia, 1934