Dov’è finita la filosofia in Italia?

Dov’è finita la filosofia in Italia?

La filosofia è al centro del programma di studi dei licei italiani. Ciò è vero, ma determinare cosa significhi è meno semplice. Qual è, oggi, il ruolo della filosofia nella formazione educativa degli studenti liceali italiani? È possibile parlare del tema senza presupporre un giudizio di valore, sbilanciato dalla parte di chi la filosofia già la conosce? Poiché il problema riguarda anche questo.

In Italia, le direttive ministeriali per l’istruzione nei licei individuano nella filosofia un cardine dell’insegnamento del triennio, qualunque sia l’indirizzo specifico scelto dallo studente: al pari della lingua italiana, della storia, della matematica, della fisica, la filosofia è sempre presente. Eppure, giunto ormai vicino alla laurea triennale in Filosofia, mi interrogo sul valore di quanto mi ha insegnato il liceo e sull’urgenza di quanto, invece, avrebbe potuto insegnarmi.

Vi è qualcosa che non funziona, profondamente, nel modo in cui, oggi, la filosofia viene insegnata. La tradizione storiografica è particolarmente forte nel nostro paese, il che, per lo studente universitario, è uno strumento prezioso, poiché essa permette di acquisire una coscienza profonda della complessità delle tematiche filosofiche e così, auspicabilmente, cura nel coglierne le distinzioni tecniche. Tuttavia, è lecito chiedersi se il metodo storiografico sia egualmente il più adeguato a introdurre ex novo alla materia, soprattutto se si vuole fronteggiare onestamente il fatto che quanto evocato in ex-liceali dal ricordo di Hegel, di Platone o di Locke sia normalmente un senso di stranezza e bizzarria. Massimo Mugnai, in un recente libro intitolato eloquentemente Come non insegnare la filosofia, riassume quello che un po’ noi tutti conserviamo dei nostri filosofici studi: “si passa in fretta da quel tale che crede nel mondo delle idee a quello dell’io penso, a quell’altro che crede ci siano le monadi, a quello della dialettica ‘tesi-antitesi-sintesi’, a quell’altro che dice che senza Dio tutto è permesso, a quell’altro ancora che ha scoperto il predominio della tecnica… ecc. ecc., in un succedersi senza fine di frasi fatte”.

Gli obiettivi del Ministero sono giustamente ambiziosi e rappresentano una concezione del sapere umanistica, valorizzante l’individuo, il cittadino e la società; vi si ritrova un’idea di cittadinanza in cui la cultura gioca un ruolo fondante ed ha un valore in sé. Ma l’autonomia valoriale della cultura significa qualcosa agli occhi di un quindicenne? Perché diamo per scontato che così dovrebbe essere? Jonathan Barnes, per anni professore a Oxford, scrisse in una postfazione all’Ideografia di Gottlob Frege (il padre della logica matematica) che il motivo per cui studiare logica è che essa è un bene in sé, ragione equiparabile a quella per cui ci piace andare in campagna o gustare una coppa di champagne. Ora, io non credo che le cose stiano esattamente così e per comprendere perché la logica, o la filosofia, siano un bene in sé bisogna, esattamente, avere già le motivazioni per leggere di logica o di filosofia. Il paragone può apparire forzato ma un ragazzo, probabilmente, può capire da solo perché è bella la campagna e non perché l’Ideografia (un tentativo di costruzione di un linguaggio del pensiero ispirato all’aritmetica) è affascinante. I nostri licei non introducono alla filosofia, bensì la spiegano come se fosse già chiara agli occhi degli studenti. Per questo io credo che la realizzazione degli obiettivi formativi sia ambigua – sia nei dettagli teorici che nella realizzazione pratica – e, di conseguenza, che essa sia capace di generare effetti contrari a quelli auspicati.

In Italia, l’insegnamento della filosofia nei licei è regolamentato, principalmente, dal decreto 89 del 15 marzo 2010 e dal decreto 211 del 7 ottobre dello stesso anno. È soprattutto questo secondo, contenente le linee guida per le specifiche materie, a indicare gli obiettivi generali dell’insegnamento filosofico nel secondo biennio e nel quinto anno (triennio). Il decreto differenzia le direttive per indirizzo: poiché quelle qui di interesse rimangono omogeneamente invariate, non verrà fatta distinzione circa questo punto. È importante tenere a mente, inoltre, che la filosofia è prevista esclusivamente negli indirizzi liceali.

Se il preambolo generale (si veda l’allegato A) del decreto 211 è incoraggiante e ricorda come la scuola non debba mai essere nozionismo, sottolineando l’importanza di far comprendere ciò che viene insegnato, invece, a consultare i provvedimenti specifici circa la filosofia, emergono i primi dubbi. Al triennio, il piano didattico riguarda l’intera storia della filosofia occidentale, dai presocratici ai giorni nostri, proponendosi ad esempio di giungere, nell’arco di due anni, da Platone a Hegel. Inoltre, se la lista di autori è prima facie più ridotta, in realtà, con cura filologica, viene osservato che per comprendere è necessario contestualizzare e, allora, con celeri ritocchi, ci si ritrova con un programma di ben diversa stazza (teorica e cartacea). E così, per studiare Socrate, Platone e Aristotele bisognerà occuparsi dei presocratici, dei sofisti e poi della filosofia ellenistica romana e dei neoplatonici; per comprendere Agostino e Tommaso, sarà bene conoscere la Scolastica dalle origini al ‘300; per Galileo, Cartesio, Hume, Rousseau, Kant e Hegel, servirà tutta la storia del pensiero da Galileo a Hegel (avendo cura di saltare al secondo giro Galileo, Cartesio, Hume, Rousseau, Kant e Hegel). Infine, l’ultimo anno si afferma essere dedicato alla filosofia contemporanea, da dopo Hegel ai giorni nostri. Ma ciò puntualmente non accade, perché, innanzitutto, spesso si arriva al terzo anno ancora con numerosi strascichi del secondo e, inoltre, la filosofia novecentesca viene appena abbordata. Anche per l’ultimo anno, le richieste sono assai esigenti, ossia:

 [n]ell’ambito del pensiero ottocentesco sarà imprescindibile lo studio di Schopenhauer, Kierkegaard, Marx, inquadrati nel contesto delle reazioni all’hegelismo, e di Nietzsche. Il quadro culturale dell’epoca dovrà essere completato con l’esame del Positivismo e delle varie reazioni e discussioni che esso suscita, nonché dei più significativi sviluppi delle scienze e delle teorie della conoscenza. Il percorso continuerà poi con almeno quattro autori o problemi della filosofia del Novecento, indicativi di ambiti concettuali diversi scelti tra i seguenti: a) Husserl e la fenomenologia; b) Freud e la psicanalisi; c) Heidegger e l’esistenzialismo; d) il neoidealismo italiano e) Wittgenstein e la filosofia analitica; f) vitalismo e pragmatismo; g) la filosofia d’ispirazione cristiana e la nuova teologia; h) interpretazioni e sviluppi del marxismo, in particolare di quello italiano; i) temi e problemi di filosofia politica; l) gli sviluppi della riflessione epistemologica; i) la filosofia del linguaggio; l) l’ermeneutica filosofica.

È possibile studiare tutti questi autori capendoci qualcosa? Al di là di comprendere la connessione delle etichette filosofiche (ad esempio, che un empirista non è un razionalista), che cosa può insegnare davvero un programma di questa mole? Gli studenti ne escono cerebralmente traumatizzati, soprattutto tra il secondo e il terzo anno, dopo lo scatto Kant-Hegel per riprendere il ritmo del programma, e non ricordano spesso alcunché. O meglio: se si ricorda, si ha appreso solo nomi di correnti e istruzioni generali per nomi di correnti, ma la rapida sequenza degli autori (contemporaneamente all’esistenza dell’impegno di altre materie al di fuori della filosofia) fa sì che la serie di nozioni appiccicate in testa sia presto rimossa. Inoltre, se la grande maggioranza di studenti non proseguirà lo studio della filosofia all’università, non è chiaro quale sia il fine di tutta questa fatica, al di là del fatto di sapere che Kant è esistito a un certo punto e ha detto qualcosa di oscuro che in qualche modo è filosofia.

Allo stesso tempo, anche alla luce della mia contingente esperienza accademica, non credo che questo metodo sia d’aiuto neanche per gli studenti universitari di filosofia. Imparare nomi generali, pseudo-concetti mai approfonditi, non introduce alla filosofia ma crea piuttosto l’illusione di poter parlare filosoficamente semplicemente computando con una certa verve una stringa casuale di termini altisonanti; molto più d’aiuto sarebbe introdurre al liceo ad argomenti filosofici strutturati, attraverso lo studio di alcuni problemi attraverso alcune argomentazioni di alcuni autori (e non per ogni x tale che x è un autore: etica, conoscenza, politica, religione).

Personalmente, ho l’impressione che la cura per l’interesse dei liceali verso la filosofia sia sempre più lasciata al caso, all’incontro con un professore particolarmente appassionato o a letture fatte per conto proprio. Come ho detto, si dà per scontato che la filosofia sia interessante e non se ne mostra il senso, come se un’introduzione ad essa non fosse necessaria: se per materie come fisica o matematica in cinque anni viene affrontato quanto sarà poi svolto in qualche mese di università (perché si ritiene importante semplicemente introdurre adeguatamente alla materia), invece in filosofia viene svolto in tre anni quanto un ricercatore non affronta in una vita.

A quest’ultimo riguardo, si potrebbe obiettare che la formazione nelle scienze umane ha un valore legato, in modo più generale, con la costruzione della persona e che, dunque, chi studiasse solo alcuni casi della filosofia svilupperebbe delle carenze come qualcuno che conoscesse solo parzialmente la Storia. Tuttavia, bisogna ricordare che nei licei è previsto l’insegnamento della filosofia, e non della storia della filosofia, e che quest’ultima sia ugualmente essenziale per l’istruzione di un cittadino è almeno fortemente discutibile. Nel suo libro, Mugnai prende di mira, in particolare, i manuali liceali, criticandone la costruzione meramente storico-diacronica e la mole di pagine. Inoltre, osserva sempre Mugnai, in essi viene lasciato sempre meno spazio agli autori della filosofia, che vengono sostituiti da riassunti generali delle dottrine e da collegamenti con altre materie. È lecito quindi chiedersi se lo studio pedissequo di un manuale può davvero introdurre alla filosofia, ossia se esso possa far capire cosa si stia facendo quando si fa filosofia. Per questo Mugnai propone, ad esempio, un nuovo tipo di manuale, di dimensione più ridotta e organizzato per aree tematiche sincroniche (come l’etica, la teoria della conoscenza, la filosofia politica) attraverso cui affrontare alcuni grandi problemi della filosofia, come il tema del libero arbitrio o il concetto di verità. Effettivamente, concentrarsi solo su alcune questioni monografiche permetterebbe di mostrare la validità dell’argomentazione filosofica e d’introdurre gli studenti all’importanza di certi problemi e, forse, all’interesse per essi; in caso contrario, è ben più difficile dimostrare la realtà di discussioni in cui, di settimana in settimana, si dice tutto e il contrario di tutto.

Un altro punto su cui Mugnai richiama l’attenzione, e che rappresenta anche l’altra proposta da lui suggerita, è l’importanza della lettura diretta dei testi filosofici. Se questo punto è sottolineato anche dai decreti normativi, nella pratica non è però sufficientemente attuato, quando permetterebbe di illustrare concretamente cosa sia un’argomentazione filosofica: si potrebbe, ad esempio, scegliere un testo su cui concentrarsi per qualche mese, da leggere e commentare in classe, affidando delle letture per casa e permettendo discussioni con gli studenti in aula. Certo, in questo modo il numero degli autori calerebbe drasticamente rispetto al presente, e forse anche il numero di dibattiti toccati: non sarebbero, tuttavia, più numerosi i temi trattati e discussi realmente? Se questi problemi sono reali, allora è bene chiedersi se un ripensamento serio dell’insegnamento non sia davvero necessario.

In realtà, il Ministero ha emesso, in anni recenti, un documento intitolato Orientamenti per l’apprendimento della Filosofia nella società della conoscenza (commissionato ad un gruppo tecnico), nel quale si suggeriscono alcune proposte per un ripensamento dell’insegnamento filosofico soprattutto in chiave di “competenze”. Il documento si propone di illustrare il ruolo dell’insegnamento filosofico, indicandone, inoltre, diverse ricadute positive in altre materie o capacità dello studente. Tuttavia, non ritengo che l’approccio lì delineato sia soddisfacente. Al di là dei tanti termini in lingua inglese, il documento rimane molto generale e, confesso, non sono riuscito a trovarvi un passo in cui si trattasse specificatamente (in modo approfondito e dettagliato) di ciò che debba fare la materia filosofia nelle ore liceali, di quali obiettivi concreti essa debba raggiungere e del motivo chiaro per cui essa sia importante in quanto filosofia. Vi sono delle buone idee, come la divisione dell’insegnamento in una parte monografica e in una generale, come l’importanza di insegnare il ragionamento logicamente corretto e della lettura dei classici filosofici; tuttavia, quando si giunge a discutere di ciò che è inerente strettamente alla filosofia e non valido in generale per ogni materia, il testo è vago. Cito un passo:

l’apprendimento della filosofia può contribuire a favorire la maturazione delle suddette competenze in modo da rendere ogni studente un autonomo costruttore di sé stesso: per certi versi, la ragione di tale possibilità sembra scaturire dall’etimologia stessa della parola, dallo spazio semantico che prospetta e dal sentimento che richiama, appunto ϕιλο e σοϕία […] filosofia come capacità di scorgere il legame in ciò che è apparentemente slegato, allora, raffigura una possibilità formativa da destinare a ogni studente, al fine di sviluppare in lui la consapevolezza della relazione come condizione del sapere, sia dal punto di vista dell’oggetto che da quello del soggetto e della comunità sociale.

Ritengo che considerazioni di questo genere siano troppo vaghe e non aiutino lo studente. Non soltanto per i motivi che ho elencato sopra, ma anche perché un approccio di questo genere rischia di essere deleterio per la risposta da parte dei ragazzi. Esso rischia, cioè, di dipingere la filosofia come qualcosa di borioso, tronfio, assolutamente non interessante e anche un poco folle (“neri di pustole, butterati, gli occhi cerchiati da anelli” e “questi vegliardi sono sempre intrecciati alle loro seggiole”, direbbe Rimbaud ne I seduti).

E allo stesso tempo, tentativi di avvicinare la scuola ai ragazzi non possono essere fatti attraverso stratagemmi, come la flipped-classroom o la digitalizzazione delle attività (come se la scuola dovesse diventare un gioco giocoso per poter risultare interessante agli occhi di uno studente o di una studentessa: ma così, si considera poco seria la scuola stessa o poco capaci studenti e studentesse?). Anche in questo caso, infatti, il risultato è la polverosità e un senso di disagio da parte degli studenti, anglosassonamente flippati o cooperatively educati. Il problema è rilevante e riguarda ciò che si potrebbe chiamare la formazione del futuro della nostra nazione, ma che credo denoti la stessa importanza se denominato semplicemente l’educazione dei giovani. Questioni come quella qui delineata sono centrali per l’Istruzione nel nostro paese, tema che è troppo importante per non essere affrontato con una cura estrema, anche a causa delle conseguenze silenziose, ma sempre più lampanti, degli anni di Covid-19 sul rapporto tra giovani e scuola.

Per quanto riguarda la filosofia, concentrarsi solo su alcuni argomenti filosofici, permetterebbe di smaltire questi detriti in modo efficace: sarebbe possibile ottenere una spiegazione approfondita, con la possibilità di mostrare i nessi concettuali retrostanti a un dato problema, nonché si potrebbe avere dialogo con gli studenti, i quali forse, capendo qualcosa di più, porrebbero più questioni. Dovremmo rinunciare al timore, diffuso circa le materie umanistiche, di dover insegnare tutto e di dover tutto menzionare: questo atteggiamento tradisce l’idea che in fondo così bisogna fare perché queste materie, dopo il liceo, saranno abbandonate per sempre. Ma la nausea diffusa tra studenti a causa del massivo enciclopedismo dovrebbe indurci a osar questionare maggiormente il nostro metodo.

Bibliografia

Decreto del Presidente della Repubblica del 7 ottobre 2010, n. 211

Ministero per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca, Direzione Generale per gli Ordinamenti Scolastici e la valutazione del sistema nazionale di istruzione, Orientamenti per l’apprendimento della Filosofia nella società della conoscenza, 2017

Frege, Gottlob, L’idéographie, tr. fr. e prefazione di C. Besson, postfazione di J. Barnes, Parigi, Vrin, 1999

Mugnai, Massimo, Come non insegnare la filosofia, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2023

Milano, Italia: spazi, progetti e crisi di sistema. Intervista a Gabriele Pasqui

Milano, Italia: spazi, progetti e crisi di sistema. Intervista a Gabriele Pasqui

A Milano la deindustrializzazione ha reso fruibili ampie aree un tempo occupate da stabilimenti. Ciò è avvenuto in particolare per gli scali ferroviari – la cui rete capillare ha costituito un fattore decisivo per lo sviluppo industriale della città – e che oggi sono ormai in disuso. Per questo il Comune punta a rigenerare questi enormi spazi, attraverso progetti che cambieranno la natura del tessuto urbano e del paesaggio milanese. Ne parliamo con il Professor Gabriele Pasqui, docente di Politiche urbane presso il Politecnico di Milano.

Professor Pasqui, Lei è stato consulente del Comune di Milano “per la definizione di linee di intervento per la trasformazione degli scali ferroviari dismessi basate sul riconoscimento dell’apporto progettuale delle comunità locali”. Può spiegarci quali sono state le linee generali delle politiche urbanistiche che il Comune ha adottato in questo ambito.

Vale la pena di ricordare che quella degli scali è una vicenda molto lunga. Sono stati realizzati dalla Società Ferrovie nel corso di molti decenni nel Ventesimo secolo, quando rappresentavano un elemento fondamentale della logistica nel trasporto delle merci. Già a partire dagli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso gli scali sono stati usati sempre meno, perché i modelli di organizzazione spaziale della logistica sono cambiati, quindi, il modello del grande scalo è venuto meno. Per questa ragione a partire dai primi anni del Duemila Ferrovie dello Stato ha deciso di dismetterli e di accordarsi con il comune per renderli edificabili attraverso specifici strumenti urbanistici, affinché aumentassero il loro valore e potessero essere mesi sul mercato. La contrattazione è stata molto lunga: avviata dall’amministrazione di Letizia Moratti, è stata portata avanti dalla giunta Pisapia e chiusa da quella di Beppe Sala. L’accordo di programma raggiunto prevedeva che gli scali fossero sviluppati come un sistema, cosa che non si è poi realizzata in fase di attuazione, che ha visto in opera strumenti differenti. I lavori negli scali di Greco e Porta Romana sono già in fase attuativa.

I progetti per lo scalo di Greco e per quello di Porta Romana prenderanno la forma di “housing sociale”. In particolare, al piano per Porta Romana partecipa il Consorzio cooperative lavoratori (CCL), promosso dalle ACLI milanesi, con l’obiettivo di realizzare appartamenti in edilizia convenzionata ordinaria e in edilizia popolare. Cosa pensa di questa tipologia di progetto? Ritiene che questa modalità sia applicabile sistematicamente in altre aree del milanese un tempo occupate da capannoni e ciminiere? È lo strumento adatto per risolvere il problema abitativo di cui la città soffre?

Quando ci fu la discussione sugli scali ferroviari il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico, di cui faccio parte, collaborò con il Comune di Milano. La nostra opinione è stata accolta solo in parte dal Comune e si ritrova nell’accordo con FS: si proponeva di utilizzare gli scali per allargare l’offerta di edilizia a prezzi agevolati. Le varie forme di “housing sociale” non rispondono al bisogno abitativo delle fasce più deboli della popolazione: i prezzi proposti sono comunque molto più alti di quelli previsti dall’edilizia popolare. Gli operatori che intervengono nell’housing sociale, come le cooperative a cui si faceva riferimento e Fondazione Cariplo, svolgono un ruolo molto importante, che però non riesce a rispondere ai bisogni della fascia più bassa.

C’è poi la questione delle case per gli studenti. Il tipo di risposta che viene dal mercato risponde ancora una volta solo a una fascia alta: le stesse residenze realizzate da un operatore privato come Coima sugli scali ferroviari non rispondono ai bisogni degli studenti fuorisede con redditi medio-bassi o bassi. Quindi, la mia risposta alla tua domanda è che indubbiamente l’housing sociale è un pezzo della risposta, ma ci sarebbe anche bisogno di più investimenti pubblici, in particolare per le fasce a reddito più basso.

Non sembra che investimenti pubblici di questo tipo possano essere utilizzati per costruire nuove aree, visto che non sono rimasti molti spazi edificabili in città di Milano.

Ancora esistono degli spazi non edificati a Milano, che però dovrebbero essere lasciati a verde. Sono disponibili due strumenti: il primo è quello di lavorare sulle aree abbandonate, a questo riguardo gli scali rappresentano un’occasione in parte perduta. Altre città europee riescono ancora a costruire case popolari su aree dismesse. Si potrebbe pensare a trasformare in abitazioni caserme o addirittura uffici pubblici non più utilizzati: il patrimonio pubblico è largamente sottoutilizzato. Serve lavorare sia su un piano finanziario – il pubblico deve metterci più soldi – che su un piano progettuale e di regolamentazione.

Mi viene in mente un caso, slegato dalla questione abitativa, di un recupero di uno spazio andato a finire male: quello della cascina Cuccagna, un luogo nella cui ristrutturazione il Comune e le famiglie del quartiere hanno investito parecchio e che oggi è inaccessibile a larga parte degli abitanti, non solo a causa dei prezzi. Questo è quello che mi sembra il rischio più grande quando si va a riqualificare.

Noi veniamo da quarant’anni di discredito del pubblico. Si passa così alla privatizzazione di quelli che sono spazi pubblici, che diventano in questo modo posti esclusivi. La vicenda della cascina Cuccagna è la perfetta esemplificazione della rimozione di uno spazio da un uso pubblico allargato. Come riuscire nelle operazioni di riuso e di recupero a mantenere un controllo sociale su questi spazi? Si tratta di un problema gestionale, su cui c’è bisogno di un grande investimento non solo di denaro, ma anche cognitivo da parte dell’amministrazione.

Si tratta quindi di un problema di classe dirigente? Spesso all’interno di Sottosuolo ci siamo interrogati sulle manchevolezze che l’università ha nel formarci come classe dirigente. Che ne è della formazione da amministratore pubblico di cui l’università è responsabile?

Io credo che questo sia uno dei problemi più gravi. Ha due aspetti: uno è la politica. Abbiamo assistito a un suo depauperamento, che l’ha resa sempre meno capace di strategia. Il primo è quindi un problema di classe dirigente politica. C’è poi una questione molto pesante di ceto amministrativo, e qui vi è sicuramente una responsabilità delle università: è chiaro che se tu formi delle persone che non sono in grado di operare efficacemente all’interno della pubblica amministrazione questa si indebolisce. La pubblica amministrazione italiana è vecchia, assume pochi giovani e solo in forma precaria: c’è quindi anche un problema di rinnovamento delle capacità. In questo anche il Politecnico ci mette del suo: forse non siamo in grado di formare architetti e urbanisti che possano agire in modo efficiente all’interno delle pubbliche amministrazioni, questo anche perché tendiamo restituire l’idea che andare lavorare in un comune sia una pessima cosa. Si tratta di un problema culturale: un posto da dirigente comunale oggi non è più ambito come lo era un tempo, questo anche causa della disparità di retribuzione tra il tra settore pubblico e quello privato.

A proposito di pianificazione mancata, ritiene che la conformazione che storicamente la città di Milano ha assunto impedirà per sempre di avere una rete capillare e funzionante di piste ciclabili? Deve sapere che sta parlando a un gruppo di agguerriti ciclisti.

Il problema riguarda principalmente la parte centrale della città, la cui configurazione presenta i maggiori problemi. Per me la risposta ha tre filoni: primo, si devono togliere le macchine dalla città. Su questo ci vuole molto coraggio. L’uso dell’auto deve essere ridotto, di tutte le auto, anche di quelle elettriche, che occupano tanto spazio quanto quelle a benzina o a diesel. È quindi necessario rafforzare il trasporto pubblico: dobbiamo ragionare sia pensando a chi vive in città che alla questione del pendolarismo, dando a chi decide di entrare in città senza automobile delle alternative credibili. Viene poi la riorganizzazione del sistema delle piste ciclabili, che ad oggi non funziona. Si pensi al ponte della Ghisolfa, che rappresenta un esempio di grande difficoltà tecnica nella creazione di una pista ciclabile. É chiaro che è necessaria un po’ più di progettazione fine del sistema delle ciclabili. Io penso che in ogni caso un sistema di mobilità lenta non possa prescindere dalla riduzione della presenza di macchine in città, non solo attraverso incentivi e trasporto pubblico, ma anche con limitazioni, come quella di una “zona 30” estesa. Il problema della ciclabilità e i pericoli ad essa legati dipendono molto dalla velocità delle vetture, e il movimento dei ciclisti è emerso a causa del numero inaccettabile di incidenti gravi che si sono verificati.

La mancanza di pianificazione e l’assenza di strategia sembrano essere i più profondi tra i problemi emersi dalle risposte del Professor Pasqui: lo si è visto dalla mancata connessione dei rinnovati scali ferroviari in un sistema e dalle difficoltà manifestatesi nel tracciare una rete di piste ciclabili, così come dalla discussa questione abitativa che affligge la città di Milano. Una spiegazione è stata riscontrata nelle deficienze del ceto amministrativo. La perdita di attrattiva da parte dell’impiego pubblico, all’interno di un più generale depauperamento del senso dello Stato nella società italiana, ha causato il mancato rinnovo del personale amministrativo: ne è seguita una mancanza di adeguata capacità cognitiva, e quindi di conoscenza procedurale, altresì detta know-how, intesa in veste di conoscenza del “come” una certa operazione dev’essere correttamente eseguita o un problema gestionale risolto. Ma più di tutto la pubblica amministrazione soffre dell’assenza di interessi pubblici definiti a livello politico. È qui infatti che va individuata la causa dell’incapacità di funzionare come sistema da parte delle istituzioni: l’assenza di un indirizzo politico volto a delineare le politiche pubbliche mette in crisi la pubblica amministrazione, il cui compito dovrebbe essere quello di implementare tali programmi. Si pone così un problema, quello della classe dirigente, alla quale spetterebbe il compito di dare l’indirizzo politico, sia a livello locale che nazionale. Questa ha invece perso il suo potere di direzionare culturalmente e moralmente la società diffondendo il senso comune, prima di tutto a causa della crisi del suo luogo di formazione: l’università.