Milano, Italia: spazi, progetti e crisi di sistema. Intervista a Gabriele Pasqui

Milano, Italia: spazi, progetti e crisi di sistema. Intervista a Gabriele Pasqui

A Milano la deindustrializzazione ha reso fruibili ampie aree un tempo occupate da stabilimenti. Ciò è avvenuto in particolare per gli scali ferroviari – la cui rete capillare ha costituito un fattore decisivo per lo sviluppo industriale della città – e che oggi sono ormai in disuso. Per questo il Comune punta a rigenerare questi enormi spazi, attraverso progetti che cambieranno la natura del tessuto urbano e del paesaggio milanese. Ne parliamo con il Professor Gabriele Pasqui, docente di Politiche urbane presso il Politecnico di Milano.

Professor Pasqui, Lei è stato consulente del Comune di Milano “per la definizione di linee di intervento per la trasformazione degli scali ferroviari dismessi basate sul riconoscimento dell’apporto progettuale delle comunità locali”. Può spiegarci quali sono state le linee generali delle politiche urbanistiche che il Comune ha adottato in questo ambito.

Vale la pena di ricordare che quella degli scali è una vicenda molto lunga. Sono stati realizzati dalla Società Ferrovie nel corso di molti decenni nel Ventesimo secolo, quando rappresentavano un elemento fondamentale della logistica nel trasporto delle merci. Già a partire dagli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso gli scali sono stati usati sempre meno, perché i modelli di organizzazione spaziale della logistica sono cambiati, quindi, il modello del grande scalo è venuto meno. Per questa ragione a partire dai primi anni del Duemila Ferrovie dello Stato ha deciso di dismetterli e di accordarsi con il comune per renderli edificabili attraverso specifici strumenti urbanistici, affinché aumentassero il loro valore e potessero essere mesi sul mercato. La contrattazione è stata molto lunga: avviata dall’amministrazione di Letizia Moratti, è stata portata avanti dalla giunta Pisapia e chiusa da quella di Beppe Sala. L’accordo di programma raggiunto prevedeva che gli scali fossero sviluppati come un sistema, cosa che non si è poi realizzata in fase di attuazione, che ha visto in opera strumenti differenti. I lavori negli scali di Greco e Porta Romana sono già in fase attuativa.

I progetti per lo scalo di Greco e per quello di Porta Romana prenderanno la forma di “housing sociale”. In particolare, al piano per Porta Romana partecipa il Consorzio cooperative lavoratori (CCL), promosso dalle ACLI milanesi, con l’obiettivo di realizzare appartamenti in edilizia convenzionata ordinaria e in edilizia popolare. Cosa pensa di questa tipologia di progetto? Ritiene che questa modalità sia applicabile sistematicamente in altre aree del milanese un tempo occupate da capannoni e ciminiere? È lo strumento adatto per risolvere il problema abitativo di cui la città soffre?

Quando ci fu la discussione sugli scali ferroviari il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico, di cui faccio parte, collaborò con il Comune di Milano. La nostra opinione è stata accolta solo in parte dal Comune e si ritrova nell’accordo con FS: si proponeva di utilizzare gli scali per allargare l’offerta di edilizia a prezzi agevolati. Le varie forme di “housing sociale” non rispondono al bisogno abitativo delle fasce più deboli della popolazione: i prezzi proposti sono comunque molto più alti di quelli previsti dall’edilizia popolare. Gli operatori che intervengono nell’housing sociale, come le cooperative a cui si faceva riferimento e Fondazione Cariplo, svolgono un ruolo molto importante, che però non riesce a rispondere ai bisogni della fascia più bassa.

C’è poi la questione delle case per gli studenti. Il tipo di risposta che viene dal mercato risponde ancora una volta solo a una fascia alta: le stesse residenze realizzate da un operatore privato come Coima sugli scali ferroviari non rispondono ai bisogni degli studenti fuorisede con redditi medio-bassi o bassi. Quindi, la mia risposta alla tua domanda è che indubbiamente l’housing sociale è un pezzo della risposta, ma ci sarebbe anche bisogno di più investimenti pubblici, in particolare per le fasce a reddito più basso.

Non sembra che investimenti pubblici di questo tipo possano essere utilizzati per costruire nuove aree, visto che non sono rimasti molti spazi edificabili in città di Milano.

Ancora esistono degli spazi non edificati a Milano, che però dovrebbero essere lasciati a verde. Sono disponibili due strumenti: il primo è quello di lavorare sulle aree abbandonate, a questo riguardo gli scali rappresentano un’occasione in parte perduta. Altre città europee riescono ancora a costruire case popolari su aree dismesse. Si potrebbe pensare a trasformare in abitazioni caserme o addirittura uffici pubblici non più utilizzati: il patrimonio pubblico è largamente sottoutilizzato. Serve lavorare sia su un piano finanziario – il pubblico deve metterci più soldi – che su un piano progettuale e di regolamentazione.

Mi viene in mente un caso, slegato dalla questione abitativa, di un recupero di uno spazio andato a finire male: quello della cascina Cuccagna, un luogo nella cui ristrutturazione il Comune e le famiglie del quartiere hanno investito parecchio e che oggi è inaccessibile a larga parte degli abitanti, non solo a causa dei prezzi. Questo è quello che mi sembra il rischio più grande quando si va a riqualificare.

Noi veniamo da quarant’anni di discredito del pubblico. Si passa così alla privatizzazione di quelli che sono spazi pubblici, che diventano in questo modo posti esclusivi. La vicenda della cascina Cuccagna è la perfetta esemplificazione della rimozione di uno spazio da un uso pubblico allargato. Come riuscire nelle operazioni di riuso e di recupero a mantenere un controllo sociale su questi spazi? Si tratta di un problema gestionale, su cui c’è bisogno di un grande investimento non solo di denaro, ma anche cognitivo da parte dell’amministrazione.

Si tratta quindi di un problema di classe dirigente? Spesso all’interno di Sottosuolo ci siamo interrogati sulle manchevolezze che l’università ha nel formarci come classe dirigente. Che ne è della formazione da amministratore pubblico di cui l’università è responsabile?

Io credo che questo sia uno dei problemi più gravi. Ha due aspetti: uno è la politica. Abbiamo assistito a un suo depauperamento, che l’ha resa sempre meno capace di strategia. Il primo è quindi un problema di classe dirigente politica. C’è poi una questione molto pesante di ceto amministrativo, e qui vi è sicuramente una responsabilità delle università: è chiaro che se tu formi delle persone che non sono in grado di operare efficacemente all’interno della pubblica amministrazione questa si indebolisce. La pubblica amministrazione italiana è vecchia, assume pochi giovani e solo in forma precaria: c’è quindi anche un problema di rinnovamento delle capacità. In questo anche il Politecnico ci mette del suo: forse non siamo in grado di formare architetti e urbanisti che possano agire in modo efficiente all’interno delle pubbliche amministrazioni, questo anche perché tendiamo restituire l’idea che andare lavorare in un comune sia una pessima cosa. Si tratta di un problema culturale: un posto da dirigente comunale oggi non è più ambito come lo era un tempo, questo anche causa della disparità di retribuzione tra il tra settore pubblico e quello privato.

A proposito di pianificazione mancata, ritiene che la conformazione che storicamente la città di Milano ha assunto impedirà per sempre di avere una rete capillare e funzionante di piste ciclabili? Deve sapere che sta parlando a un gruppo di agguerriti ciclisti.

Il problema riguarda principalmente la parte centrale della città, la cui configurazione presenta i maggiori problemi. Per me la risposta ha tre filoni: primo, si devono togliere le macchine dalla città. Su questo ci vuole molto coraggio. L’uso dell’auto deve essere ridotto, di tutte le auto, anche di quelle elettriche, che occupano tanto spazio quanto quelle a benzina o a diesel. È quindi necessario rafforzare il trasporto pubblico: dobbiamo ragionare sia pensando a chi vive in città che alla questione del pendolarismo, dando a chi decide di entrare in città senza automobile delle alternative credibili. Viene poi la riorganizzazione del sistema delle piste ciclabili, che ad oggi non funziona. Si pensi al ponte della Ghisolfa, che rappresenta un esempio di grande difficoltà tecnica nella creazione di una pista ciclabile. É chiaro che è necessaria un po’ più di progettazione fine del sistema delle ciclabili. Io penso che in ogni caso un sistema di mobilità lenta non possa prescindere dalla riduzione della presenza di macchine in città, non solo attraverso incentivi e trasporto pubblico, ma anche con limitazioni, come quella di una “zona 30” estesa. Il problema della ciclabilità e i pericoli ad essa legati dipendono molto dalla velocità delle vetture, e il movimento dei ciclisti è emerso a causa del numero inaccettabile di incidenti gravi che si sono verificati.

La mancanza di pianificazione e l’assenza di strategia sembrano essere i più profondi tra i problemi emersi dalle risposte del Professor Pasqui: lo si è visto dalla mancata connessione dei rinnovati scali ferroviari in un sistema e dalle difficoltà manifestatesi nel tracciare una rete di piste ciclabili, così come dalla discussa questione abitativa che affligge la città di Milano. Una spiegazione è stata riscontrata nelle deficienze del ceto amministrativo. La perdita di attrattiva da parte dell’impiego pubblico, all’interno di un più generale depauperamento del senso dello Stato nella società italiana, ha causato il mancato rinnovo del personale amministrativo: ne è seguita una mancanza di adeguata capacità cognitiva, e quindi di conoscenza procedurale, altresì detta know-how, intesa in veste di conoscenza del “come” una certa operazione dev’essere correttamente eseguita o un problema gestionale risolto. Ma più di tutto la pubblica amministrazione soffre dell’assenza di interessi pubblici definiti a livello politico. È qui infatti che va individuata la causa dell’incapacità di funzionare come sistema da parte delle istituzioni: l’assenza di un indirizzo politico volto a delineare le politiche pubbliche mette in crisi la pubblica amministrazione, il cui compito dovrebbe essere quello di implementare tali programmi. Si pone così un problema, quello della classe dirigente, alla quale spetterebbe il compito di dare l’indirizzo politico, sia a livello locale che nazionale. Questa ha invece perso il suo potere di direzionare culturalmente e moralmente la società diffondendo il senso comune, prima di tutto a causa della crisi del suo luogo di formazione: l’università.

Una città alla deriva. L’educazione milanese di Alberto Rollo

Una città alla deriva. L’educazione milanese di Alberto Rollo

Milano lo vuole? Com’è che si appartiene a una città? Per rispondere a queste domande Rollo impiega 317 pagine, le quali non trattano solo della topografia dei luoghi della vita dell’autore, ma narrano della sua educazione milanese. Un’educazione operaia, legata al mondo delle officine in cui è stato introdotto fin dalla prima infanzia dal padre, figura ambigua ma fondamentale nella vita di Rollo. Una figura che simboleggia il mondo dell’industria, del lavoro, della vita precaria fatta di privazioni, che rappresenta la sua infanzia proletaria. Infanzia che si contrappone alla prima giovinezza e all’età adulta, dominate dalla figura del caro amico Marco, che diventa lentamente punto di riferimento per l’autore. Marco, che con la sua educazione di stampo borghese segna la graduale fuoriuscita di Rollo dalla classe operaia che sa di tradimento nei confronti della famiglia, soprattutto del padre. Due classi sociali che non hanno niente in comune; un cerchio tra “aristocrazia proletaria e borghesia ribelle”.

È sullo sfondo di una Milano sempre più in crescita – che dalla città delle officine, i cui primi monumenti erano proprio le industrie, diventa la città del design – che viene raccontata la vita dell’autore, così strettamente legata alla sua città.  Un’educazione milanese, appunto.

Così viene presentato il ritratto di questa Milano sempre più europea, che però comincia a perdere la sua identità e il suo ruolo di città-madre, in cui l’appartenenza di classe, su cui l’educazione milanese si basa, non ha più importanza, cedendo il posto a una società mista.

Che Milano non abbia mai conosciuto una elaborazione autoctona della sua forma urbis è piuttosto evidente e quando non ha più reagito assimilando ha cominciato a spostare l’accento sul suo essere una città europea, che è un bell’esempio di menzogna-verità servita nel piatto della comunicazione, certo, ma anche nel piatto del cittadino che viene costruendo una identità, fuori dal conflitto di classe.

Cambia il contesto sociale e cambia anche l’urbanistica di Milano, città che ormai si muove all’insegna del marketing, della comunicazione, della moda e di questa fantomatica sostenibilità, a scapito della quale ha lasciato perdere il suo progetto di uniformità urbana: “…una città che acquisisce e somma senza mai diventare città-madre”, dice Rollo.

Non c’è più la Milano industriale di cui Rollo parla nel suo libro. La fine dell’era dell’industria (e il conseguente calo demografico) ha portato alla chiusura delle fabbriche e alla fine di quel sistema urbanistico rigido e austero, quella “gabbia d’acciaio” dentro la quale Milano era chiusa. L’ordine urbanistico di stampo industriale lascia il posto a una situazione sempre più caotica e iniqua. E’ sempre più evidente, infatti, la distinzione e l’isolamento delle periferie, nate insieme all’industria per far alloggiare le famiglie operaie sempre più in crescita, che negli ultimi anni sono diventate sinonimo di segregazione sociale e desolazione. Con la fine dell’epoca industriale e del lavoro, infatti, è venuto meno anche il senso di comunità e di identità che caratterizzava queste zone, “abbiamo perso lo spessore del noi”.

Questo nuovo senso di disordine e di caos si osserva anche nelle opere incompiute della città: sono molti i progetti urbanistici avviati nel corso della storia di Milano, e altrettanti quelli che non sono stati portati a termine; un esempio è quello di Corso Garibaldi, in cui i nuovi palazzi del dopoguerra si contrappongono agli edifici più antichi, producendo un senso di squilibrio.

Milano è diventata la città dell’innovazione, della moda, della creatività; un polo d’attrazione per gli affari e per il turismo. Questo ha portato a inevitabili cambiamenti economici e di conseguenza anche urbanistici; sono tanti, infatti, gli interventi architettonici che sono stati fatti per elevare questa città agli occhi dell’Europa (Bosco Verticale, progetto CityLife) ma anche per riqualificare diverse aree dismesse (Progetto Bicocca). Con l’Expo 2015, inoltre, è cominciato un progetto di mobilità sempre più green e sostenibile: piste ciclabili, introduzione dell’Area C…una serie di misure per rendere questa città più vivibile e per qualificarla agli occhi del resto d’Europa. La situazione attuale appare decisamente diversa da quella della Milano di Rollo, quella del boom economico e industriale.

“Tornavo alla mia educazione milanese proprio mentre la città ne distorceva lo spirito e si ammaccava, si imbastardiva, andava alla deriva”. Non c’è più quell’educazione all’insegna del mondo industriale di cui il libro ci parla; sono altri i valori su cui la città oggi si muove: architettura, moda, design. L’autore stesso lo ammette: “i giovani della nostra generazione sono i primi a vedere le cose con occhi diversi, con occhi nuovi”; occhi nuovi che ci permettono di andare dove chi ci ha preceduto non è arrivato, che fanno sì che questa metropoli caotica progredisca sempre di più, “perché – come disse il padre dell’autore – non torneremo mai più indietro, si ricostruisce per il meglio”.

Bibliografia

Arsuffi Roberto, Urbanistica: la città incompiuta, in “urbanfile”, 2008

Alberto Rollo, Un’educazione milanese, Lecce, manni, 2016

Bigatti Giorgio, Crisi e rigenerazione urbana nella Milano contemporanea, in “CoSMO”, n. 17, 2020