Dov’è finita la filosofia in Italia?

Dov’è finita la filosofia in Italia?

La filosofia è al centro del programma di studi dei licei italiani. Ciò è vero, ma determinare cosa significhi è meno semplice. Qual è, oggi, il ruolo della filosofia nella formazione educativa degli studenti liceali italiani? È possibile parlare del tema senza presupporre un giudizio di valore, sbilanciato dalla parte di chi la filosofia già la conosce? Poiché il problema riguarda anche questo.

In Italia, le direttive ministeriali per l’istruzione nei licei individuano nella filosofia un cardine dell’insegnamento del triennio, qualunque sia l’indirizzo specifico scelto dallo studente: al pari della lingua italiana, della storia, della matematica, della fisica, la filosofia è sempre presente. Eppure, giunto ormai vicino alla laurea triennale in Filosofia, mi interrogo sul valore di quanto mi ha insegnato il liceo e sull’urgenza di quanto, invece, avrebbe potuto insegnarmi.

Vi è qualcosa che non funziona, profondamente, nel modo in cui, oggi, la filosofia viene insegnata. La tradizione storiografica è particolarmente forte nel nostro paese, il che, per lo studente universitario, è uno strumento prezioso, poiché essa permette di acquisire una coscienza profonda della complessità delle tematiche filosofiche e così, auspicabilmente, cura nel coglierne le distinzioni tecniche. Tuttavia, è lecito chiedersi se il metodo storiografico sia egualmente il più adeguato a introdurre ex novo alla materia, soprattutto se si vuole fronteggiare onestamente il fatto che quanto evocato in ex-liceali dal ricordo di Hegel, di Platone o di Locke sia normalmente un senso di stranezza e bizzarria. Massimo Mugnai, in un recente libro intitolato eloquentemente Come non insegnare la filosofia, riassume quello che un po’ noi tutti conserviamo dei nostri filosofici studi: “si passa in fretta da quel tale che crede nel mondo delle idee a quello dell’io penso, a quell’altro che crede ci siano le monadi, a quello della dialettica ‘tesi-antitesi-sintesi’, a quell’altro che dice che senza Dio tutto è permesso, a quell’altro ancora che ha scoperto il predominio della tecnica… ecc. ecc., in un succedersi senza fine di frasi fatte”.

Gli obiettivi del Ministero sono giustamente ambiziosi e rappresentano una concezione del sapere umanistica, valorizzante l’individuo, il cittadino e la società; vi si ritrova un’idea di cittadinanza in cui la cultura gioca un ruolo fondante ed ha un valore in sé. Ma l’autonomia valoriale della cultura significa qualcosa agli occhi di un quindicenne? Perché diamo per scontato che così dovrebbe essere? Jonathan Barnes, per anni professore a Oxford, scrisse in una postfazione all’Ideografia di Gottlob Frege (il padre della logica matematica) che il motivo per cui studiare logica è che essa è un bene in sé, ragione equiparabile a quella per cui ci piace andare in campagna o gustare una coppa di champagne. Ora, io non credo che le cose stiano esattamente così e per comprendere perché la logica, o la filosofia, siano un bene in sé bisogna, esattamente, avere già le motivazioni per leggere di logica o di filosofia. Il paragone può apparire forzato ma un ragazzo, probabilmente, può capire da solo perché è bella la campagna e non perché l’Ideografia (un tentativo di costruzione di un linguaggio del pensiero ispirato all’aritmetica) è affascinante. I nostri licei non introducono alla filosofia, bensì la spiegano come se fosse già chiara agli occhi degli studenti. Per questo io credo che la realizzazione degli obiettivi formativi sia ambigua – sia nei dettagli teorici che nella realizzazione pratica – e, di conseguenza, che essa sia capace di generare effetti contrari a quelli auspicati.

In Italia, l’insegnamento della filosofia nei licei è regolamentato, principalmente, dal decreto 89 del 15 marzo 2010 e dal decreto 211 del 7 ottobre dello stesso anno. È soprattutto questo secondo, contenente le linee guida per le specifiche materie, a indicare gli obiettivi generali dell’insegnamento filosofico nel secondo biennio e nel quinto anno (triennio). Il decreto differenzia le direttive per indirizzo: poiché quelle qui di interesse rimangono omogeneamente invariate, non verrà fatta distinzione circa questo punto. È importante tenere a mente, inoltre, che la filosofia è prevista esclusivamente negli indirizzi liceali.

Se il preambolo generale (si veda l’allegato A) del decreto 211 è incoraggiante e ricorda come la scuola non debba mai essere nozionismo, sottolineando l’importanza di far comprendere ciò che viene insegnato, invece, a consultare i provvedimenti specifici circa la filosofia, emergono i primi dubbi. Al triennio, il piano didattico riguarda l’intera storia della filosofia occidentale, dai presocratici ai giorni nostri, proponendosi ad esempio di giungere, nell’arco di due anni, da Platone a Hegel. Inoltre, se la lista di autori è prima facie più ridotta, in realtà, con cura filologica, viene osservato che per comprendere è necessario contestualizzare e, allora, con celeri ritocchi, ci si ritrova con un programma di ben diversa stazza (teorica e cartacea). E così, per studiare Socrate, Platone e Aristotele bisognerà occuparsi dei presocratici, dei sofisti e poi della filosofia ellenistica romana e dei neoplatonici; per comprendere Agostino e Tommaso, sarà bene conoscere la Scolastica dalle origini al ‘300; per Galileo, Cartesio, Hume, Rousseau, Kant e Hegel, servirà tutta la storia del pensiero da Galileo a Hegel (avendo cura di saltare al secondo giro Galileo, Cartesio, Hume, Rousseau, Kant e Hegel). Infine, l’ultimo anno si afferma essere dedicato alla filosofia contemporanea, da dopo Hegel ai giorni nostri. Ma ciò puntualmente non accade, perché, innanzitutto, spesso si arriva al terzo anno ancora con numerosi strascichi del secondo e, inoltre, la filosofia novecentesca viene appena abbordata. Anche per l’ultimo anno, le richieste sono assai esigenti, ossia:

 [n]ell’ambito del pensiero ottocentesco sarà imprescindibile lo studio di Schopenhauer, Kierkegaard, Marx, inquadrati nel contesto delle reazioni all’hegelismo, e di Nietzsche. Il quadro culturale dell’epoca dovrà essere completato con l’esame del Positivismo e delle varie reazioni e discussioni che esso suscita, nonché dei più significativi sviluppi delle scienze e delle teorie della conoscenza. Il percorso continuerà poi con almeno quattro autori o problemi della filosofia del Novecento, indicativi di ambiti concettuali diversi scelti tra i seguenti: a) Husserl e la fenomenologia; b) Freud e la psicanalisi; c) Heidegger e l’esistenzialismo; d) il neoidealismo italiano e) Wittgenstein e la filosofia analitica; f) vitalismo e pragmatismo; g) la filosofia d’ispirazione cristiana e la nuova teologia; h) interpretazioni e sviluppi del marxismo, in particolare di quello italiano; i) temi e problemi di filosofia politica; l) gli sviluppi della riflessione epistemologica; i) la filosofia del linguaggio; l) l’ermeneutica filosofica.

È possibile studiare tutti questi autori capendoci qualcosa? Al di là di comprendere la connessione delle etichette filosofiche (ad esempio, che un empirista non è un razionalista), che cosa può insegnare davvero un programma di questa mole? Gli studenti ne escono cerebralmente traumatizzati, soprattutto tra il secondo e il terzo anno, dopo lo scatto Kant-Hegel per riprendere il ritmo del programma, e non ricordano spesso alcunché. O meglio: se si ricorda, si ha appreso solo nomi di correnti e istruzioni generali per nomi di correnti, ma la rapida sequenza degli autori (contemporaneamente all’esistenza dell’impegno di altre materie al di fuori della filosofia) fa sì che la serie di nozioni appiccicate in testa sia presto rimossa. Inoltre, se la grande maggioranza di studenti non proseguirà lo studio della filosofia all’università, non è chiaro quale sia il fine di tutta questa fatica, al di là del fatto di sapere che Kant è esistito a un certo punto e ha detto qualcosa di oscuro che in qualche modo è filosofia.

Allo stesso tempo, anche alla luce della mia contingente esperienza accademica, non credo che questo metodo sia d’aiuto neanche per gli studenti universitari di filosofia. Imparare nomi generali, pseudo-concetti mai approfonditi, non introduce alla filosofia ma crea piuttosto l’illusione di poter parlare filosoficamente semplicemente computando con una certa verve una stringa casuale di termini altisonanti; molto più d’aiuto sarebbe introdurre al liceo ad argomenti filosofici strutturati, attraverso lo studio di alcuni problemi attraverso alcune argomentazioni di alcuni autori (e non per ogni x tale che x è un autore: etica, conoscenza, politica, religione).

Personalmente, ho l’impressione che la cura per l’interesse dei liceali verso la filosofia sia sempre più lasciata al caso, all’incontro con un professore particolarmente appassionato o a letture fatte per conto proprio. Come ho detto, si dà per scontato che la filosofia sia interessante e non se ne mostra il senso, come se un’introduzione ad essa non fosse necessaria: se per materie come fisica o matematica in cinque anni viene affrontato quanto sarà poi svolto in qualche mese di università (perché si ritiene importante semplicemente introdurre adeguatamente alla materia), invece in filosofia viene svolto in tre anni quanto un ricercatore non affronta in una vita.

A quest’ultimo riguardo, si potrebbe obiettare che la formazione nelle scienze umane ha un valore legato, in modo più generale, con la costruzione della persona e che, dunque, chi studiasse solo alcuni casi della filosofia svilupperebbe delle carenze come qualcuno che conoscesse solo parzialmente la Storia. Tuttavia, bisogna ricordare che nei licei è previsto l’insegnamento della filosofia, e non della storia della filosofia, e che quest’ultima sia ugualmente essenziale per l’istruzione di un cittadino è almeno fortemente discutibile. Nel suo libro, Mugnai prende di mira, in particolare, i manuali liceali, criticandone la costruzione meramente storico-diacronica e la mole di pagine. Inoltre, osserva sempre Mugnai, in essi viene lasciato sempre meno spazio agli autori della filosofia, che vengono sostituiti da riassunti generali delle dottrine e da collegamenti con altre materie. È lecito quindi chiedersi se lo studio pedissequo di un manuale può davvero introdurre alla filosofia, ossia se esso possa far capire cosa si stia facendo quando si fa filosofia. Per questo Mugnai propone, ad esempio, un nuovo tipo di manuale, di dimensione più ridotta e organizzato per aree tematiche sincroniche (come l’etica, la teoria della conoscenza, la filosofia politica) attraverso cui affrontare alcuni grandi problemi della filosofia, come il tema del libero arbitrio o il concetto di verità. Effettivamente, concentrarsi solo su alcune questioni monografiche permetterebbe di mostrare la validità dell’argomentazione filosofica e d’introdurre gli studenti all’importanza di certi problemi e, forse, all’interesse per essi; in caso contrario, è ben più difficile dimostrare la realtà di discussioni in cui, di settimana in settimana, si dice tutto e il contrario di tutto.

Un altro punto su cui Mugnai richiama l’attenzione, e che rappresenta anche l’altra proposta da lui suggerita, è l’importanza della lettura diretta dei testi filosofici. Se questo punto è sottolineato anche dai decreti normativi, nella pratica non è però sufficientemente attuato, quando permetterebbe di illustrare concretamente cosa sia un’argomentazione filosofica: si potrebbe, ad esempio, scegliere un testo su cui concentrarsi per qualche mese, da leggere e commentare in classe, affidando delle letture per casa e permettendo discussioni con gli studenti in aula. Certo, in questo modo il numero degli autori calerebbe drasticamente rispetto al presente, e forse anche il numero di dibattiti toccati: non sarebbero, tuttavia, più numerosi i temi trattati e discussi realmente? Se questi problemi sono reali, allora è bene chiedersi se un ripensamento serio dell’insegnamento non sia davvero necessario.

In realtà, il Ministero ha emesso, in anni recenti, un documento intitolato Orientamenti per l’apprendimento della Filosofia nella società della conoscenza (commissionato ad un gruppo tecnico), nel quale si suggeriscono alcune proposte per un ripensamento dell’insegnamento filosofico soprattutto in chiave di “competenze”. Il documento si propone di illustrare il ruolo dell’insegnamento filosofico, indicandone, inoltre, diverse ricadute positive in altre materie o capacità dello studente. Tuttavia, non ritengo che l’approccio lì delineato sia soddisfacente. Al di là dei tanti termini in lingua inglese, il documento rimane molto generale e, confesso, non sono riuscito a trovarvi un passo in cui si trattasse specificatamente (in modo approfondito e dettagliato) di ciò che debba fare la materia filosofia nelle ore liceali, di quali obiettivi concreti essa debba raggiungere e del motivo chiaro per cui essa sia importante in quanto filosofia. Vi sono delle buone idee, come la divisione dell’insegnamento in una parte monografica e in una generale, come l’importanza di insegnare il ragionamento logicamente corretto e della lettura dei classici filosofici; tuttavia, quando si giunge a discutere di ciò che è inerente strettamente alla filosofia e non valido in generale per ogni materia, il testo è vago. Cito un passo:

l’apprendimento della filosofia può contribuire a favorire la maturazione delle suddette competenze in modo da rendere ogni studente un autonomo costruttore di sé stesso: per certi versi, la ragione di tale possibilità sembra scaturire dall’etimologia stessa della parola, dallo spazio semantico che prospetta e dal sentimento che richiama, appunto ϕιλο e σοϕία […] filosofia come capacità di scorgere il legame in ciò che è apparentemente slegato, allora, raffigura una possibilità formativa da destinare a ogni studente, al fine di sviluppare in lui la consapevolezza della relazione come condizione del sapere, sia dal punto di vista dell’oggetto che da quello del soggetto e della comunità sociale.

Ritengo che considerazioni di questo genere siano troppo vaghe e non aiutino lo studente. Non soltanto per i motivi che ho elencato sopra, ma anche perché un approccio di questo genere rischia di essere deleterio per la risposta da parte dei ragazzi. Esso rischia, cioè, di dipingere la filosofia come qualcosa di borioso, tronfio, assolutamente non interessante e anche un poco folle (“neri di pustole, butterati, gli occhi cerchiati da anelli” e “questi vegliardi sono sempre intrecciati alle loro seggiole”, direbbe Rimbaud ne I seduti).

E allo stesso tempo, tentativi di avvicinare la scuola ai ragazzi non possono essere fatti attraverso stratagemmi, come la flipped-classroom o la digitalizzazione delle attività (come se la scuola dovesse diventare un gioco giocoso per poter risultare interessante agli occhi di uno studente o di una studentessa: ma così, si considera poco seria la scuola stessa o poco capaci studenti e studentesse?). Anche in questo caso, infatti, il risultato è la polverosità e un senso di disagio da parte degli studenti, anglosassonamente flippati o cooperatively educati. Il problema è rilevante e riguarda ciò che si potrebbe chiamare la formazione del futuro della nostra nazione, ma che credo denoti la stessa importanza se denominato semplicemente l’educazione dei giovani. Questioni come quella qui delineata sono centrali per l’Istruzione nel nostro paese, tema che è troppo importante per non essere affrontato con una cura estrema, anche a causa delle conseguenze silenziose, ma sempre più lampanti, degli anni di Covid-19 sul rapporto tra giovani e scuola.

Per quanto riguarda la filosofia, concentrarsi solo su alcuni argomenti filosofici, permetterebbe di smaltire questi detriti in modo efficace: sarebbe possibile ottenere una spiegazione approfondita, con la possibilità di mostrare i nessi concettuali retrostanti a un dato problema, nonché si potrebbe avere dialogo con gli studenti, i quali forse, capendo qualcosa di più, porrebbero più questioni. Dovremmo rinunciare al timore, diffuso circa le materie umanistiche, di dover insegnare tutto e di dover tutto menzionare: questo atteggiamento tradisce l’idea che in fondo così bisogna fare perché queste materie, dopo il liceo, saranno abbandonate per sempre. Ma la nausea diffusa tra studenti a causa del massivo enciclopedismo dovrebbe indurci a osar questionare maggiormente il nostro metodo.

Bibliografia

Decreto del Presidente della Repubblica del 7 ottobre 2010, n. 211

Ministero per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca, Direzione Generale per gli Ordinamenti Scolastici e la valutazione del sistema nazionale di istruzione, Orientamenti per l’apprendimento della Filosofia nella società della conoscenza, 2017

Frege, Gottlob, L’idéographie, tr. fr. e prefazione di C. Besson, postfazione di J. Barnes, Parigi, Vrin, 1999

Mugnai, Massimo, Come non insegnare la filosofia, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2023

Le capanne della filosofia. L’abitare in Heidegger e Wittgenstein

Le capanne della filosofia. L’abitare in Heidegger e Wittgenstein

Martin Heidegger e Ludwig Wittgenstein, due tra i pensatori più influenti del Novecento, hanno vissuto una simile spinta ad allontanarsi dal rumore della città per rifugiarsi in luoghi isolati ed immersi nella natura. Tale scelta, chiaramente anti-urbana, ha come modello la capanna/manifesto di Henry David Thoreau (1817-1862), filosofo americano appartenente alla corrente trascendentalista, che all’età di 27 anni decise di ritirarsi in una piccola capanna dieci per quindici sul lago Walden, in Massachusetts.  

Thoreau si isola per  due anni, due mesi e due giorni nei boschi, dove affronta inverni rigidissimi e scrive un resoconto autobiografico dell’esperienza, pubblicato poi con il titolo Walden (1854).  
Questo luogo/manifesto è il risultato di un’intuizione. Thoreau riconosce lo spirito del tempo, si rende conto che il XIX secolo è quello dell’esplosione urbana, come mostrano i casi di Londra, Parigi e Chicago. La città – rumorosa, caotica ed alienante – è il luogo da cui fuggire per ritrovare sé stesso attraverso l’isolamento e la semplicità. Come scrive Thoreau:

Conosco solo me stesso come entità umana; la scena per così dire, dei pensieri e degli affetti, e sono sensibile a una certa doppiezza con la quale posso rendermi distante da me stesso come da un altro. […] Non ho mai trovato un compagno che mi desse tanta compagnia come la solitudine.

Henry David Thoreau

Martin Heidegger (1889 – 1976) nel 1922 fece costruire una piccola capannanella Foresta Nera, vicino a Todtnauberg, e rimase per tutta la sua vita il luogo in cui ritirarsi. In un breve discorso radiofonico, poi pubblicato con il titolo Perché resto in provincia (1934), ce ne fornisce direttamente una descrizione:  

Sul ripido pendio di una vasta valle montuosa nella parte meridionale della Foresta Nera, ad un’altitudine di 1.150 metri, si erge una piccola baita da sci. La planimetria misura sei metri per sette. Il tetto basso copre tre stanze: la cucina, che funge anche da sala da pranzo, una camera da letto e uno studio. Sparse a distanze regolari lungo la base stretta della valle e sullo stesso ripido pendio di fronte, si trovano le case contadine con i loro grandi tetti sporgenti. Più in alto sul pendio, i prati e i pascoli conducono al bosco con i suoi alberi di abete scuri, vecchi e maestosi. Sopra tutto si staglia un cielo estivo limpido, e nel suo spazio radioso due falchi volteggiano in ampi cerchi. Questo è il mio work-world.

Martin Heidegger

Nel testo Heidegger mostra come la motivazione della sua scelta di rimanere ad insegnare a Friburgo, rinunciando alla ambitissima cattedra di Filosofia nell’università di Berlino, sia proprio la sua capanna. Heidegger sperimenta lo stesso slancio anti-urbano di Thoreau, perché è proprio stando a contatto con la natura che è possibile produrre un pensiero realmente filosofico. Sarà, non a caso, proprio questo il luogo in cui scriverà Essere e tempo (1927). Il contatto con la natura non ha nulla a che fare con l’esperienza romantica caratterizzata dalla ricerca di un’estetica nei panorami puri ed incontaminati, ma è un’immersione reale e totale nelle cose e nelle persone delle montagne. Il presupposto di questa esperienza, che non a caso ritroviamo anche in Thoreau, è l’isolamento. Con le parole di Heidegger:  

Le persone in città spesso si chiedono se si provi solitudine stando nelle montagne tra i contadini durante periodi così lunghi e monotoni. Ma non è solitudine, è isolamento. Nelle grandi città si può essere facilmente soli come quasi ovunque altro. Ma lì non si può mai essere isolati. Essere isolati ha il potere peculiare e originale non di isolare noi stessi, ma di proiettare la nostra intera esistenza nell’ampia vicinanza della presenza [Wesen] di tutte le cose.

Martin Heidegger

Come ogni grande intellettuale, Heidegger fa della sua vita un atto pratico della sua filosofia. Ed è per questo che bisogna indagare alcuni aspetti centrali del suo pensiero per comprendere il perché della capanna. 
Heidegger è uno dei principali pensatori della Tecnica, che diventa per lui una chiave attraverso la quale rileggere tutta la storia del pensiero Occidentale. Il filosofo, infatti, ritrova nel pensiero platonico l’origine del pensiero metafisico e tecnico che domina la filosofia fino al Ventesimo secolo. Nella sua opera filosofica Platone identifica un dualismo radicale tra il mondo quotidiano e il mondo delle Idee, introducendo così un pensiero utilitaristico che inquadra gli oggetti che ci circondano in una dinamica mezzo/fine. Eliminando ogni valore all’ente in sé, l’albero guadagna un valore esclusivamente come strumento nelle mani dell’Homo Faber. 

Heidegger valorizza il pensiero dei presocratici, non ancora “sottomesso” alla narrativa metafisica e tecnica. Una Physis pensata come l’Essere, ovvero ciò che si manifesta da sé e spontaneamente, che viene alla presenza e viene lasciato essere da un pensiero “aurorale” e non tecnico.  
La dimenticanza dell’Essere, infatti, permette all’essere umano di concentrarsi esclusivamente sull’ente, e quindi di rimanere vincolato a quel progetto capillare e vorace di assoggettamento del mondo esterno. Il pensiero dell’Heidegger degli anni Venti e Trenta, infatti, ripensa l’essere umano nella sua progettualità, finitezza e limitatezza per cercare di allontanarsi dal dominio della tecnica. 
Un altro grande sforzo della filosofia heideggeriana è ripensare l’Abitare. Già in Essere e Tempo (1927) Heidegger mostra come “essere nel mondo” sia un esistenziale dell’Esserci [Dasein]. Lo spazio non è un contenitore in cui ci muoviamo, né uno spazio matematico ed isolato, ma la spazialità viene colta proprio grazie a quel “ci” dell’Esserci. Il “ci” mostra l’Esserci nella sua fattualità e nella sua gettatezza, e la spazialità è pensata come la modalità assolutamente peculiare dell’uomo di essere nel mondo. 

Nell’opera Abitare, Costruire e Pensare (1951), grazie ad una lunga e minuziosa ricostruzione etimologica, Heidegger riesce a dissolvere l’opposizione che tendenzialmente ritroviamo tra abitare e costruire. Scrive: 

Bauen (costruire), buan, bhu, beo sono infatti la stessa parola che il nostro bin (sono) nelle sue varie forme: ich bin (io sono), du bist (tu sei), la forma imperativa bis, sii. Che significa allora: ich bin, io sono? L’antica parola bauen, a cui si ricollega il «bin», risponde: «ich bin», «du bist» vuol dire: io abito, tu abiti. Il modo in cui tu sei e io sono, il modo in cui noi uomini siamo sulla terra, è il Buan, l’abitare. Esser uomo significa: essere sulla terra come mortale; e cioè: abitare. 

Martin Heidegger, Abitare, costruire e pensare

L’abitare non è solo un’attività posteriore alla costruzione, ma è la modalità propria dell’uomo di essere nel mondo. L’uomo, il mortale, è in quella che Heidegger definisce Quadratura, ovvero il rapporto tra Mortali, Divinità, Terra e Cielo. Proprio in questo testo Heidegger porta come esempio di questa modalità dell’abitare la sua capanna, perché “ciò che ha edificato la casa è stata la persistente capacità di far entrare nelle cose terra e cielo, i divini e i mortali nella loro semplicità (einfältig)”.  

Quella capanna così cara ed importante per Heidegger, in cui poter vivere isolati ed in contatto con le cose è un invito a tutti gli uomini a ripensarsi. L’obiettivo è comprendere la propria limitatezza e confrontarsi con questo dolore per poter poi vivere non abusando di ciò che ci circonda. Se ci si riesce, si è in grado di esperire quella meraviglia davanti a ciò che semplicemente esiste, e che unisce Heidegger al prossimo pensatore: Ludwig Wittgenstein. 

Ludwig Wittgenstein (1889 – 1951) cresce a Vienna nella famiglia più ricca di tutto l’impero austroungarico, ma la sua vita fu tutt’altro che agiata. Da giovane decide di rinunciare al patrimonio familiare, come un San Francesco laico, e nonostante fosse l’allievo più geniale di Bertrand Russel a Cambridge, e avesse quindi la possibilità di fare una tranquilla vita da professore, rinunciò anche alla cattedra. Nella vita Wittgenstein fece i lavori più disparati: soldato nella Prima guerra mondiale, giardiniere, aviatore e maestro elementare in alcuni paesini austriaci. Nel 1913, nonostante le critiche mosse da Russell, decise di andare per qualche mese a Skjoden, un piccolissimo paesino in fondo al fiordo più a Nord della Norvegia. Non esattamente un posto accessibile. In quel periodo delineò le basi dell’unica sua opera pubblicata in vita, destinata a cambiare il mondo filosofico e non solo: il Tractatus logico-philosophicus (1921). Durante la Prima guerra mondiale affida la costruzione della capanna agli abitanti del paese, e dal 1921 fino alla sua morte continuerà a visitarla ad intermittenza. La capanna è minuscola, molto povera e poco raggiungibile, dato che è separata dal paesino da un lago spesso ghiacciato. Non è mai stata una residenza permanente per lui, ma ha sempre funzionato come un rifugio sia dalla sua vita professionale sia da quella personale. 

Il sogno condiviso della capanna come luogo in cui rifugiarsi, lontana da tutto e tutti, anti-urbana per eccellenza, vicina alla Natura unisce tre autori spesso considerati lontani. La capanna è architettonicamente pura ed elementare, spoglia di ogni decorazione, tanto da essere l’archetipo per ogni disegno infantile di una casa. Solo quattro linee e un tetto, questo è tutto ciò che è necessario per vivere. Un’architettura opposta ai complessi ed ingombranti grattacieli che da ormai due secoli si elevano fieri nelle nostre città. La semplicità diventa una forma di resistenza ad un modello che vede nella quantità una misura di valore. Viviamo circondati di oggetti che, anche se consideriamo fondamentali, necessari non sono. La scelta di spogliarsi da ciò che è superfluo è una scelta di resistenza molto evidente. Thoreau poteva tranquillamente insegnare, Heidegger poteva andare a Berlino e Wittgenstein poteva vivere una vita agiata tra Vienna e Cambridge, ma tutti e tre intorno ai 27 anni fanno la difficile scelta di isolarsi, vivere a contatto con il bosco e ciò che fornisce.  

Il bosco porta con sé un modello di temporalità molto preciso: il qui ed ora. Nel bosco lo spazio e il tempo coincidono e la capanna fa coincidere costruire ed abitare, come ha mostrato Heidegger. Proprio questa temporalità così particolare, lontana dalla costante angoscia per il futuro che la città produce, permette di vivere davvero. Con le parole di Thoreau: 

Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per scoprire, in un punto di morte, che non ero vissuto. […] Volevo vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa, vivere da gagliardo spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita, falciare ampio e raso terra e mettere poi la vita in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici.

Henry David Thoreau

Non a caso questa riflessione si conclude riferendosi alla Semplicità. Il bosco, secondo Thoreau, permette di poter distinguere ciò che vuol dire davvero vivere, vivere in maniera autentica direbbe Heidegger. Per arrivare “al midollo” è necessario proprio questo processo di semplificazione radicale, ed una volta arrivato al succo diventa ancora più evidente quanto fossero superflue le cose a cui eravamo legati. Ritornare in sé per poter vivere quella meraviglia che, oltre ad essere alla base della filosofia, è un aspetto fondamentale sia per Heidegger che per Wittgenstein. Wittgenstein fu forse l’autore che nel corso del ‘900 si concentrò di più sul rapporto tra il dicibile e l’indicibile. Allontanandosi dalla posizione del Circolo di Vienna, accoglie il sentimento come parte di quel non dicibile, che anche se non ha una funzione propriamente conoscitiva, è strettamente umano. In particolare, in Lecture on Ethics (1965) parla di una Meraviglia che le cose semplicemente siano, piuttosto che Nulla. Non che il cielo al tramonto sia rosso o viola, ma che esso semplicemente sia, “comunque esso sia” (Heidegger, 2001, p. 21).

Anche Heidegger parla della stessa meraviglia quando scrive: “Unico fra gli enti, l’uomo, chiamato dalla voce dell’essere, esperisce la meraviglia di tutte le meraviglie: che l’ente è”.  
Quella meraviglia che ha dato origine alla filosofia, che non è semplice stupore, ma con le parole di Socrate: meditatio mortis. La capanna, con la sua semplicità, porta a confrontarsi con la morte, con il dolore, con la solitudine e le sofferenze. Quel dolore che appartiene al regno dell’indicibile, ma che nonostante questo è centrale per vivere, “essere per la morte” come chiave per comprendere davvero l’Esserci. 

Il modo migliore per concludere l’articolo è lasciare parlare direttamente Martin Heidegger: 

Ma la benevolenza del sentiero di campagna parla così a lungo finché vi sono uomini che, nati nelle sue vicinanze, sono capaci di ascoltarlo. Essi sono all’ascolto della loro origine, ma non sono schiavi di macchinazioni. L’uomo, quando non si affida alla benevolenza del sentiero di campagna, cerca vanamente di assoggettare con i propri piani il globo terrestre. Minaccioso incombe il rischio che gli uomini d’oggi rimangano pressoché sordi al suo linguaggio. Sono prigionieri del chiasso delle macchine, che quasi confondono con la voce di Dio. Così l’uomo si distrae e vaga privo di un sentiero. A coloro che si trovano così distratti e smarriti, il Semplice appare uniforme. L’Uniforme provoca sazietà e disgusto. Chi si sente sazio trova unicamente ciò che è monotono e indifferente. Il Semplice è fuggito. La sua forza silenziosa si è inaridita. È vero, si riduce rapidamente il novero di coloro, che ancora conoscono il Semplice come qualcosa che è loro Proprio. Ma i pochi saranno, in ogni dove, quelli che restano. Grazie alla mite violenza del sentiero potranno durare più a lungo delle forze gigantesche dell’energia atomica che il calcolare umano ha strappato alla natura, fino a renderla la catena del proprio agire.

Martin Heidegger

BIBLIOGRAFIA
– Henry David Thoreau, Walden Ovvero Vita Nei Boschi, Rizzoli, Milano, 1988
– Leonardo Caffo, Quattro Capanne, nottetempo, Milano, 2020
– Ludwig Wittgenstein, Conferenza sull’etica, in Lezioni e Conversazioni, Adelphi, Milano, 1967
– Martin Heidegger, Che cos’è metafisica, Adelphi, Milano, 2001
– Martin Heidegger, Essere E Tempo , Longanesi, Milano, 1976
– Martin Heidegger, Costruire Abitare Pensare, in Saggi e Discorsi, Mursia, Milano, 2015
– Martin Heidegger, Perchè Resto In Provincia, 1934

Essere la città. Una passeggiata tra il tempo e lo spazio

Essere la città. Una passeggiata tra il tempo e lo spazio

Se la strada da percorrere tornasse ad essere, per una volta, corso alberato, vicolo angusto, piazza porticata? Tallone, dopo punta, dopo tallone imparerei semplicemente a vedere ciò che ho sempre (ciecamente) guardato.

“Il passeggiatore solitario e pensoso” si smarrisce, così, sempre in luoghi concreti. C’è chi lo chiama occhio di Parigi, chi kinoglaz (cineocchio), chi flâneur, ma credo abbia tanti nomi, quanti sono gli occhi abili a vedere.

Indugia, innanzitutto, presso la folla, prodotto peculiare della città moderna: “dove gli uomini vivono, estranei l’uno all’altro e viandanti l’uno accanto all’altro”. Nel marasma di volti scoloriti è l’unico a tentare di riconoscere questi viaggiatori di viaggi comuni. Ognuno di essi ha una storia le cui tracce si leggono nel viso, negli abiti, nel portamento: sono le infinite vicende che intessono la trama vivente della città. Godere della folla richiede, però, l’abilità d’essere “sé stesso e un altro […] come quelle anime erranti che cercano un corpo”. Qui il passeggiatore subito esclama: “Ciò che gli uomini chiamano amore è ben poca cosa […] paragonata a questa santa prostituzione dell’anima che si dà tutta intera […] all’imprevisto che si mostra, all’ignoto che passa”.

Talvolta, nell’errare dell’anima fra i vari corpi della folla, l’assale tutt’insieme un tremore improvviso. È una passante, dice Baudelaire, “esile e alta, in lutto, maestà di dolore. […] Bellezza fuggitiva / che con un solo sguardo m’hai chiamato da morte”. È un solo istante: “non ti vedrò più dunque che al di là della vita, / […] tu ignori dove vado, io dove sei sparita”. Un attimo al di là del tempo che riporta, questa volta Benjamin, alla propria infanzia: “mentre con calcato zelo si rivolgeva all’amico, per la prima volta lo sguardo del ragazzo cercò di stringersi a una passante. E così intenso fu il suo sforzo di non tradirsi né con la voce né con lo sguardo, che della passante non vide nulla”.

Sempre, ricordi come questo, riaffiorano alla memoria immancabilmente legati a certi luoghi. Ciò che spesso stupisce, però, è il luogo e il tempo sul quale la memoria decide di porre il suo accento: si hanno i ricordi più vividi delle situazioni apparentemente più insignificanti. Tuttavia, a queste immagini ordinarie è stato affidato qualcosa di ulteriore e più profondo: ci parlano della nostra intera persona, di tutto ciò che siamo. Così, per Benjamin, la cartolina di una piazza notturna, seppur sconosciuta, può essere sineddoche per il ricordo della sua Berlino invernale e, forse, per l’intera sua infanzia cittadina.

Vien da sé, però, che la memoria divenga un fine intarsio di luoghi soprattutto per il passeggiatore accorto. Dopotutto, lui soltanto s’avvede che “l’anima è, in certo modo, tutte le cose”: se le guardo, io sono queste facciate rase dalla luce, se ascolto il rombare e lo stridere del tram sulle rotaie, mi faccio io stesso tram e rotaie. In questo modo il passeggiatore si mimetizza, si maschera da ogni cosa che vede e si fa tutt’uno con le atmosfere cittadine. Benjamin vede nei suoi nascondigli d’infanzia una premonizione di questa abilità – spesso nel gioco puerile si cela in forma grezza un fatto molto serio. Perciò rievoca: il bambino nascondendosi dietro la tenda “diviene a sua volta qualcosa di fluttuante e bianco, uno spettro. […] E dietro una porta è porta lui stesso, la fa sua sotto forma di pesante maschera”. Benjamin, bambino o passeggiatore, è libero da superstizioni egocentriche: sa di essere nient’altro che i propri luoghi e i propri oggetti.

Un legame particolare si crea, però, solo con lo spazio che si abita. Peculiare, appunto, per il suo paradosso: quanto più è vicino e frequentato, tanto più si fa muto e obliato. Certamente il consueto intreccio di orizzontali e verticali, sempre uguale a sé, che osserviamo giorno dopo giorno dalla finestra, sa rassicurare e culla, ma non ci sa più parlare del passato. Sempre, infatti, le forme della città sono contornate dai ricordi, ma questi disegni della memoria, insieme alle forme stesse, si fanno nitidi soltanto allo sguardo di chi torna dopo lunga separazione. Al rimpatriato, la città, vista come per la prima volta, restituisce i toni emotivi del passato, al tempo celati dall’abitudine. A quel punto, ogni cono prospettico, ogni scorcio, si rivela custode fidato di ciò che è trascorso. Ma che accade quando lo scrigno delle nostre memorie viene sfasciato?

“Parigi, / la vecchia Parigi è sparita (più veloce d’un cuore, / ahimè, cambia la forma d’una città). […] Parigi cambia! Ma niente, nella mia melanconia, / s’è spostato: palazzi rifatti, impalcature, / case, vecchi sobborghi, tutto m’è allegoria; / pesano come rocce i ricordi che amo”. Baudelaire visse la drammatica metamorfosi della sua Parigi a metà ‘800, alla quale il suo cuore non riuscì a tenere il passo. Il Barone Haussmann, prefetto della città, con squadra e matita traccia monumentali boulevard attraverso affastellati quartieri medievali. In pratica: decenni di lavori che traghettano Parigi verso un’inedita modernità – è qui che Baudelaire vede la folla -, al prezzo, tuttavia, di fagocitare sé stessa e i propri scenari passati. Rimangono soltanto gli immemori vegliardi – cattedrali, residenze reali… -, posti negli snodi centrali del tessuto urbano, a simboleggiare la continuità della città nel tempo, ma ridotti, ormai soltanto, a rispettabili antichità da collezione.

Ciononostante, se interrogati saggiamente, ancora sanno essere testimoni d’altre epoche. Così la chiesa di Combray, per Proust, è “qualcosa d’assolutamente diverso dal resto della città: un edificio che occupava, se così si può dire, uno spazio di quattro dimensioni – la quarta era quella del Tempo – che spiegava attraverso i secoli la sua nave”. E se saremo tanto audaci, giungeremo attraverso i millenni fino alle sue origini ideali.

Una volta, nel deserto del Mojave in California, vidi un cartello arrugginito, una sorta di spot pubblicitario, molto lontano dalla strada. Era piantato nel nulla, e le sue grandi lettere sbiadite annunciavano: Western World Development: slots 410-460. Qualcuno doveva aver progettato proprio in quel lembo di deserto una città. Il paesaggio circostante era completamente arido, si vedeva solo qualche sparuto cactus. Provai a immaginare lì una città: osservando quella distesa avevo quasi l’impressione che fosse effettivamente esistita, e soltanto scomparsa. Una cosa però non potevo ignorare: la regione era molto più antica di qualsiasi insediamento; quindi, era anche inessenziale sapere se fosse o meno esistito un agglomerato urbano.

Wim Wenders, L’atto di vedere

È questa una ripetizione del sacrilegio originario della fondazione: siamo ancora quei primi uomini empi che osarono ritagliare per sé un lembo di terra, proprietà eterna delle sole divinità telluriche. Da un tempo immemore, ormai, la città paga il fio di questa colpa nativa. Espierà il peccato soltanto quando la polvere “filtrerà dentro gli oggetti, si fonderà con gli oggetti, e alla fine ne prenderà il posto”. Ma la città, ancora, resiste, ed insieme ad essa la sua folla, le sue forme, le sue memorie.

“È come se lo spazio [la città], consapevole […] della propria inferiorità rispetto al tempo, gli rispondesse con l’unica proprietà che il tempo non possiede: con la bellezza.”

Bibliografia

Charles Baudelaire, I fiori del male, Einaudi, Torino, 2014

Charles Baudelaire, Lo spleen di Parigi, Garzanti, Milano, 2023

Walter Benjamin, Infanzia berlinese intorno al millenovecento, Einaudi, Torino, 2001

Iosif Brodskij, Fondamenta degli Incurabili, Adelphi, Milano, 1991