da Gaia Perego e Elisa Stella | Mag 30, 2024 | La coscienza italiana
“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
Costituzione della Repubblica Italiana, Art. 9
La questione della tutela e della valorizzazione dei beni culturali del nostro Paese occupa un posto di primaria importanza fin dalla stesura della nostra Costituzione, tanto da trovarsi proprio tra i suoi principi fondamentali, quasi un unicum tra le carte costituzionali europee. Già dalle poche righe di questo articolo e dalle parole accuratamente scelte si possono ricavare importanti informazioni: il termine Repubblica indica che il ruolo di promozione e di tutela coinvolge e responsabilizza qualsiasi istituzione della Repubblica, dunque non solo lo Stato, le province e gli enti pubblici, ma anche le organizzazioni private e soprattutto gli stessi cittadini, i quali vengono direttamente coinvolti nel ruolo di promotori dello stesso patrimonio artistico. Altro termine interessante da analizzare è Nazione. Definire il patrimonio storico e artistico come proprietà di quest’ultima connota un forte carattere identitario a prescindere dalla forma di governo e dalle limitazioni territoriali: i beni culturali nazionali, in base alla legge italiana, non cessano di far parte del nostro patrimonio quando si trovano all’estero.
Ad essere coscienti di tale ruolo di primaria importanza giocato dal patrimonio artistico italiano, simbolo di una comune coscienza nazionale, non sono stati solo i Padri Costituenti. Infatti, fin dalla fondazione del Regno d’Italia nel 1861, si pensò a come porre il patrimonio artistico sotto il controllo di un’autorità centrale a cui fosse affidata la cura e il restauro dei monumenti e, contemporaneamente, si cercò di portare sotto l’egida statale oggetti di interesse comune che, fino a quel momento, erano rimasti nell’ambito della proprietà privata. L’intento, dunque, era quello di sviluppare una comune coscienza nazionale attraverso una progettualità identitaria nel processo di valorizzazione e tutela del patrimonio artistico. In tal senso vennero presi una serie di provvedimenti: in Emilia Romagna, il governatore provvisorio delle ex Legazioni pontificie Luigi Carlo Farini istituì nel 1860, in accordo con il Ministro dell’Istruzione Pubblica Antonio Montanari, la Regia Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna. Lo scopo era quello di dare rilevanza pubblica e di registrare ufficialmente quei luoghi “ove esistono le raccolte di antichi documenti” e scegliere quelli che “possono concorrere ad illustrare la Storia Patria”, cioè quelli che hanno valore di bene culturale. Tali interventi costituiscono il nucleo fondante dei Musei dell’Emilia-Romagna.
Per il neonato Regno i monumenti nazionali furono un importante strumento propagandistico per l’affermazione del potere laico su quello ecclesiastico (dotato di un patrimonio culturale e artistico con cui era difficile competere) tanto che con un decreto del 1873 fu concesso allo Stato anche il diritto di espropriazione di edifici religiosi per scavi archeologici. Uno dei personaggi che più si occupò di esercitare il controllo dello Stato sui monumenti storici fu Cesare Correnti, ministro della Pubblica istruzione. Su sua iniziativa furono presi una serie di provvedimenti in questa direzione, come, ad esempio, la compilazione di una lista di monumenti da dichiarare nazionali, e che quindi furono acquisiti dallo Stato. Furono principalmente due gli immaginari su cui l’Italia postunitaria tentò di proiettare il patriottismo degli italiani: in un primo momento la memoria dei martiri della libertà italiana, rappresentata in tantissimi e diversi monumenti, successivamente l’antica Roma.
Le missioni archeologiche italiane in Libia di inizio Novecento si accompagnarono a una nuova assimilazione retorica dell’Italia con Roma, che servì a preparare il terreno per la conquista militare e politica della regione: i primi archeologi italiani, sotto la direzione di Federico Halberr, arrivarono in Libia già nel 1910, per ritirarsi dalla regione proco prima dello sbarco delle truppe italiane nel 1911. Questa nuova definizione dell’italianità, portata avanti soprattutto dai nazionalisti guidati da Enrico Corradini, si contrapponeva con le posizioni dei futuristi, capeggiati da Filippo Tommaso Marinetti, che nel loro manifesto, pubblicato nel 1909, avevano affermato: “vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquari”. Nonostante le posizioni dei futuristi, però, la guerra italo-turca del 1911-1912 aprì una nuova stagione in cui le sorti dell’archeologia si sovrapposero a quelle della colonizzazione. Durante questo periodo, l’antico contribuì al processo di legittimazione della conquista militare e, contemporaneamente, favorì una nuova sensibilità dell’opinione pubblica in patria nei confronti delle vestigia romane e consacrò in una dimensione mitica la brutalità del contesto bellico. La nuova definizione della coscienza italiana si realizzò attraverso una narrazione del mondo arabo basata su cliché dell’orientalismo e contrapposta a un mondo romano visto invece come portatore di creatività e ingegno. Il progetto politico della Libia si intrecciava così ad una presunta liberazione delle vestigia antiche, che, secondo i colonizzatori, portavano i segni di un lungo disinteresse da parte dell’Impero Ottomano.
Dopo la marcia su Roma del 1922, l’atteggiamento corradiniano nei confronti dell’antico venne ereditato dal fascismo, che adottò la romanità come modello con cui confrontarsi sia in patria che nelle colonie. In Italia, le campagne di scavo e di restauro condotte nell’Urbe riportarono alla luce un patrimonio simbolico e ideologico antico cui dare nuovi significati. Nelle colonie, la pervasività dell’archeologia nel supportare il progetto mussoliniano, ai fini di rigenerazione della coscienza nazionale italiana, si giocò sull’ideale della sempiterna pax romana. Roma si sostituì ad Atene come custode della civiltà europea, mentre la trasmissione della cultura latina, nuovamente illuminata dal fascismo, fu il mezzo attraverso il quale realizzare questo passaggio di testimone.
La musealizzazione delle antichità fu parte integrante di questo processo, come spiegò il soprintendente ai monumenti e scavi di Rodi Luciano Laurenzi in occasione della presentazione dell’attività svolta dall’Istituto storico-archeologico FERT nel 1934: “se si vuol dare ad un popolo la coscienza della sua civiltà è necessario mostrargli i monumenti che l’hanno creata, le testimonianze delle lotte sostenute per conquistarla”. A questo contribuirono non solo mostre e musei, ma anche l’uso massiccio di nuove tecnologie come la fotografia, che sovente immortalava soldati e vestigia, creando una forte connessione tra il passato e il presente.
Alla nuova coscienza italiana fascista, dunque, contribuì largamente l’archeologia, in quanto offrì al regime un patrimonio culturale che permise la mitizzazione del passato e accrebbe la contrapposizione con l’altro e, allo stesso tempo, fornì spazi e momenti opportuni per la diffusione della nuova italianità al grande pubblico.
Il fil rouge che lega i tre periodi storici – quello dell’età liberale, dell’Italia fascista e del secondo dopoguerra – è la formazione, fittizia o meno, di una coscienza italiana che passa anche attraverso il riconoscimento e la tutela dei beni culturali. Il passato sembra quindi conoscibile solamente attraverso una narrazione che deve essere priva di revisionismi e avvicinarsi quanto più possibile alla realtà storica. Solo così può crearsi un legame virtuoso e felice tra la storia di un territorio e i suoi abitanti e un riconoscimento individuale e collettivo di chi siamo stati e di chi saremo.
Bibliografia
Enrico Bottrigari, Cronaca di Bologna, vol. III, a cura di Aldo Berselli, Zanichelli, Bologna, 1960-1962
Marcello Barbanera, Il sorgere dell’archeologia in Italia nella seconda metà dell’Ottocento. In: Mélanges de l’Écolefrançaise de Rome. Italie et Méditerranée, tome 113, n°2. 2001. Antiquités, archéologie et construction nationale au XIXe siècle. Journées d’études, Rome 29-30 avril 1999 et Ravello 7-8 avril 2000. pp. 493-505
Cristiana Morigi Govi, Giuseppe Sassatelli, Daniele Vitali, Scavi archeologici e musei. Bologna tra coscienza civica e identità nazionale. In: Mélanges de l’École française de Rome. Italie et Méditerranée, tome 113, n°2. 2001. Antiquités, archéologie et construction nationale au XIX e siècle. Journées d’études, Rome 29-30 avril 1999 et Ravello 7-8 avril 2000. pp. 665-678
Massimiliano Munzi, L’epica del ritorno. Archeologia e politica nella Tripolitania italiana, L’Erma di Bretschneider, Roma, 2001
Marta Petricioli, Archeologia e Mare Nostrum. Le missioni archeologiche nella politica mediterranea dell’Italia 1898/1943, Valerio Levi Editore, Roma, 1990
Simona Troilo, Pietre d’oltremare. Scavare, conservare, immaginare l’Impero (1899-1940), Laterza, Bari, 2021
Simona Troilo, Ruines de Libye. Le regard sur les antiquités dans la propagande coloniale italienne (1911-1937), in “Revue d’histoire culturelle, n.6, 2023, pp 1-23
da Alessandro Andronico | Mag 16, 2024 | La coscienza italiana
Aldo Moro, in una delle sue citazioni più famose, parlò di Mediterraneo ed Europa come due soggetti inscindibili tra loro, nell’espressione da lui usata ricorda come “l’Europa intera è nel Mediterraneo”, sottolineando come nessuno, men che meno l’Italia, dovrebbe scegliere se appartenere all’uno o all’altra; ma per quale motivo Moro sentì il bisogno di esprimersi così decisamente riguardo al Mediterraneo?
Ai giorni nostri, ancor più che ai tempi della cosiddetta Prima Repubblica, è diventato imprescindibile trattare approfonditamente il Mediterraneo e la sua evoluzione per poter immaginare il futuro del nostro paese. Purtroppo ciò accade sporadicamente e in queste eccezioni difficilmente viene descritto adeguatamente il contesto geopolitico mediterraneo nel quale l’Italia si trova ad annaspare. Si tende a trattare superficialmente il Mediterraneo e le sue vicende, parlando sempre dell’Italia come soggetto passivo che subisce solamente, incapace di ritagliarsi un ruolo attivo e dinamico, un soggetto perennemente incompiuto che non riesce mai ad abbracciare fino in fondo la propria natura mediterranea; invece si cerca troppo spesso di accostarsi ed inserirsi in contesti lontani, geograficamente e idealmente, dalle necessità italiane, contesti narrati come vitali e imprescindibili per il futuro del paese anche se così non è. Da cosa nasce questa negligenza e distanza dal mare è ciò che desidero approfondire; nello specifico cercherò di spiegare, secondo ciò che ho potuto esaminare, quali sarebbero le cause storiche della distanza italiana dal suo mare. Per poter capire cosa sia oggi il Mediterraneo per l’Italia ho ritenuto pertinente parlare di un periodo storico specifico, definito da Egidio Ivetic nel suo Il Mediterraneo e l’Italia l’epoca della “Grande Italia”, che più di ogni altro sembrerebbe aver condizionato il rapporto tra il nostro paese e il mare.
Per comprendere meglio la dimensione ed il legame tra la “Grande Italia” e il Mediterraneo è necessario accennare brevemente a quali furono le maggiori influenze che di volta in volta hanno segnato quest’epoca della nostra storia nazionale. Ogni Italia, repubblicana, liberale, nazionalista o fascista che fosse, nel rapportarsi con il mare incontra e ha incontrato sul suo percorso i due soggetti che più di ogni altro hanno plasmato il rapporto della penisola con il Mediterraneo: Roma e Venezia.
Il peso specifico che queste due grandi città, che in differenti epoche fecero del Mediterraneo la loro ragion d’essere, hanno avuto sulla classe politica e sull’opinione pubblica italiana tra il 1908 ed il 1943, date convenzionali per identificare il periodo della “Grande Italia”, è stato enorme. Il primo accostamento tra l’idea di un’Italia geografica limitata ai confini riconducibili a quelli odierni risale alla Roma di Augusto; i romani, nati come potenza a vocazione prettamente terrestre, capirono in fretta come la posizione geografica della penisola italiana fosse ottimale per ottenere un dominio completo dell’intero Mediterraneo e si trasformarono in potenza anche marittima, riuscendo a raggiungere, ad oggi unici in questo, l’unità totale del bacino del Mediterraneo. Secoli dopo toccò a Venezia riscoprire a pieno questa dimensione mediterranea dell’Italia. La Serenissima più di ogni altra città marinara italiana e mediterranea visse il mare, propaggine della città e nucleo dell’esistenza dello “Stato da Mar” veneziano; l’impero mediterraneo veneziano non era solamente una pura e semplice necessità commerciale, bensì rappresentava molto di più, un’estensione dello Stato necessaria a proiettarne il potere in ogni angolo di quel mare. Non fu certamente un caso che proprio Venezia, maturata al fianco di Costantinopoli, riuscì ad ereditare quella dimensione marittima espressa da Roma, trasformando l’Adriatico in un “piccolo Mare Nostrum” esclusivamente veneziano, per secoli intoccabile anche da soggetti ben più potenti della città veneta. Con la scomparsa di Venezia svanì anche l’interesse per il mare per quasi un cento anni, e solo verso la fine del XIX secolo una riscoperta del Mediterraneo travolse il neonato regno.
La sconfitta di Lissa nel 1866 e l’apertura del canale di Suez l’anno seguente furono i due eventi che segnarono la rinascita del navalismo – inteso come propensione di una nazione al suo essere marittima – in Italia. L’Italia riuscì in parte a riscoprirsi. Nonostante il fallimento di Lissa fosse di modeste proporzioni venne immediatamente vissuto come una terribile sconfitta in termini emotivi e retorici di molto sproporzionati. Dopo un decennio di vera e propria avversione per il mare quel “disastro” divenne la spinta per risvegliare il navalismo italiano. L’avvicinamento al mare fu strettamente collegato alle nuove scoperte geografiche, all’esistente ordine internazionale e all’apogeo dell’imperialismo europeo; il navalismo è il presupposto ideologico all’imperialismo e non fu un caso che proprio in quel periodo l’Italia iniziò a muovere i primi passi verso una nuova politica di potenza, ponendo le basi della “Grande Italia”, grande più per retorica e invocazione che per realtà dei fatti. L’idea del dominio del mare raggiunse nel paese la sua massima espressione tra il 1908 ed il 1943, date non casuali; secondo Egidio Ivetic l’alba della “Grande Italia” andrebbe individuata con la prima rappresentazione del dramma La nave di Gabriele D’Annunzio, esternazione di quell’ardente desiderio di potenza declamata e ricercata nell’Adriatico e nel Mediterraneo; mentre il tramonto di questo “sogno” di dominio marittimo viene collegato all’affondamento della nave da battaglia Roma il 9 settembre 1943, durante il suo viaggio verso i porti anglo-americani in seguito alla firma dell’armistizio. La perdita della massima espressione della produzione cantieristica italiana segnò simbolicamente la morte di ogni aspirazione di dominio nel Mediterraneo.
Dal 1914 il mare, nello specifico l’Adriatico, divenne l’ossessione del Regno d’Italia; mare che più di ogni altro doveva ritornare italiano come ai tempi di Venezia. Il possesso dell’Adriatico avrebbe garantito un predominio economico, militare e politico su gran parte del Mediterraneo. Tuttavia il raggiungimento di tale obiettivo sarebbe derivato obbligatoriamente da uno scontro con l’impero asburgico e da un possibile scontro con i popoli slavi, i quali non nascondevano le proprie aspirazioni adriatiche. Il Mediterraneo, negli anni del primo conflitto mondiale, passò in secondo piano dato che il suo controllo era in mano agli alleati inglesi e francesi; durante il conflitto con Vienna l’Adriatico non vide quasi nessuna battaglia, rimanendo un fronte secondario. Dopo la resa austriaca e la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico, i timori italiani si avverarono con la comparsa dello stato jugoslavo, successore di Vienna in quel mare come rivale dell’Italia e erede dell’intera flotta asburgica, attaccata quindi dai reparti speciali italiani durante il passaggio di bandiera della corazzata Viribus Unitis al neonato regno. Nonostante il dominio italiano non fosse totale, Roma riuscì ad ottenere quantomeno un netto predominio sugli stati balcanici affacciati sull’Adriatico. Le promesse fatte dagli Alleati dell’Intesa all’interno del Patto di Londra non vennero mantenute, il controllo assoluto sull’Adriatico non si materializzò, suscitando l’indignazione dell’opinione pubblica italiana che valutava quello come un mare d’interesse vitale per il paese, ancor di più del Mediterraneo.
In seguito all’ascesa di Mussolini e del partito fascista, la volontà di dominio sul mare non mutò, anzi prese toni più accesi. Sebbene la situazione di tensione nell’Adriatico non si estinse completamente, il regime concentrò le sue attenzioni sul Mediterraneo, considerato, dato il precedente romano del “Mare Nostrum”, lo spazio naturale e storico del paese. La romanità invocata dal partito andava di pari passo con la mediterraneità del paese: questo mare doveva essere un’unica cosa con l’Italia fascista, la sua parte allargata da controllare direttamente o indirettamente. Il dominio del Mediterraneo tanto invocato da Mussolini era inimmaginabile, nella realtà non esisteva alcuna possibilità di espansione: Londra controllava Suez, Gibilterra, Malta, Cipro e la Palestina, oltre ad avere relazioni strette con le potenze minori mediterranee; Parigi dominava il Mediterraneo occidentale, il Libano e la Siria. Roma dal canto suo controllava il Mediterraneo centrale, esclusa Malta, e il Dodecaneso, ponendosi trasversalmente rispetto all’asse ovest-est di dominio inglese. L’invasione dell’Etiopia e la successiva crisi dei rapporti con l’Inghilterra furono quindi la logica conseguenza dell’impossibilità di espansione nel bacino del Mediterraneo.
La propaganda del regime spinse sulla necessità di creare una grande comunità imperiale nel “Mare Nostrum”, nella quale tutte le sponde del Mediterraneo sarebbero state, direttamente o indirettamente, sotto il controllo italiano. Molti dei territori da inglobare nell’Italia metropolitana rispecchiavano i possedimenti degli stati italiani nel 1750, con il Mediterraneo come fulcro del nuovo impero italiano. Il mediterraneismo fascista non era altro che un programma ideologico per preparare il popolo italiano a dominare, dall’alto della propria superiorità etnica e culturale latina, più declamata che realmente sentita, lo spazio mediterraneo. La guerra dal 1940 al 1943 fu un vero e proprio conflitto mediterraneo anglo-italiano, immaginato per anni ed infine esploso con l’ingresso italiano al fianco di Hitler. La drastica sconfitta della Marina italiana, tutt’altro che di secondo livello, aprì gli occhi e mise allo scoperto tutta quella fallimentare e pretenziosa retorica decantata per un ventennio.
In seguito al fallimento bellico e all’ingresso nella Nato il paese non volle e non dovette più occuparsi di quel mare. Il Mediterraneo cadde sotto il controllo anglo-americano, precludendo a Roma ogni possibilità di indipendenza navale. Tralasciando il fattore strategico-militare della sconfitta nella Seconda guerra mondiale, furono la stessa mentalità italiana e il rapporto con il suo mare a subire un colpo devastante: l’Italia, nel processo di rigetto e chiusura della pagina del fascismo, abbandonò la dimensione marittima, che troppo ricordava quella retorica di dominio e controllo del mondo mediterraneo tanto propagandata negli anni della dittatura. Qui sorse il problema che ancora oggi affligge l’Italia: parlare di un interesse nazionale italiano nel Mediterraneo crea e ha creato parallelismi, molte volte insensati, con l’imperialismo fascista. L’Italia ha deciso sin dalla nascita della Repubblica di vivere il Mediterraneo con una postura da attore ormai comprimario, destinato ad assecondare passivamente le scelte degli altri soggetti. Una piccola eccezione ebbe luogo tra gli anni 50 e 60, quando, grazie a personaggi come La Pira, Moro, Mattei e Fanfani il paese cercò di ritagliarsi un ruolo di dialogo e collegamento con il mondo mediterraneo, tentando di risvegliare l’Italia dal torpore e dalla passività. Tuttavia, dopo questa breve parentesi, si ritornò al punto di partenza, continuando a subire passivamente, anche a scapito dei propri interessi, l’evoluzione del Mediterraneo. La natura mediterranea venne messa da parte a favore di un tentativo di avvicinamento alla dimensione atlantica e mitteleuropea.
Ad oggi poco è cambiato, l’Italia rimane titubante ad accettare la propria natura mediterranea, ricercando invece l’appartenenza a contesti che solo parzialmente si accostano alle necessità italiane, non riuscendo a capire che la mutazione del contesto internazionale, con il lento disimpegno americano in diversi teatri, in parte anche da quello mediterraneo, darebbe la possibilità all’Italia di ritornare a vivere attivamente il mare da cui tanto dipende e che tanto influenzerà il futuro della nazione. Riscoprire l’interesse nazionale e la stessa coscienza mediterranea dell’Italia sarebbero sicuramente i primi passi verso un futuro meno incerto.
Bibliografia:
Egidio Ivetic, Il Mediterraneo e l’Italia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2022