Milano, largo Cairoli. Ore otto del mattino. La nebbia era così fitta che quasi non si riusciva a vedere il Castello Sforzesco. Il freddo tagliava le mani. L’ultima manifestazione di protesta degna di questo nome a cui ho partecipato è stata nel 2018, contro l’alternanza scuola-lavoro. Una manifestazione seria, con un obiettivo chiaro, un problema specifico da affrontare. Soprattutto, c’era una connessione reale tra i partecipanti e la questione. Impossibile una partecipazione cosmetica volta a pulire la propria sporca coscienza borghese. Chi era lì sapeva bene contro cosa stava protestando, perché si trattava di qualcosa che lo riguardava direttamente. Un miracolo, visti gli insegnanti che abbiamo avuto. In che senso? Mi spiego.
Le manifestazioni studentesche non funzionano e non possono funzionare per colpa degli insegnanti post-sessantottini: gente che ha avuto una cattedra di italiano, storia e quant’altro, solo perché lo Stato pensa alla scuola unicamente come ammortizzatore sociale, dove impiegare gente che non sa che farsene della propria laurea. Per la maggior parte degli insegnanti, il proprio lavoro è un ripiego, che li ha portati all’interno di un’istituzione che non prevede significativi scatti di carriera, e nella quale anche chi lavora male ha il posto assicurato. Lo stipendio è basso e non incentiva a svolgere il proprio lavoro con entusiasmo. Ma ciò che manca più di tutto è la consapevolezza di quello che si insegna, che si riflette a sua volta nell’apatia degli studenti nei confronti di quello che studiano. In generale, a partire dalla fine della Prima Repubblica la tradizione gramsciana e crociana ha perso la sua forza propulsiva nello strutturare l’insegnamento.
Così nascono gli insegnanti inutili, che però non sono i più deleteri. I danni veri vengono fatti da altri: da chi votava DP, da chi militava nella FGCI, da chi stava con la sinistra DC, fino a quelli che hanno simpatizzato per il movimento no-global. Oggi predicano la stessa brodaglia ideologica, facendo un uso manipolatorio del passato, che rimane uno dei nostri vecchi vizi nazionali. Lo si nota in particolare nell’insegnamento della storia patria (sì, patria!), dove ci si concentra sulle sconfitte nazionali, presentate come inevitabili, quasi connaturate allo spirito italiano. Oppure come l’immancabile conseguenza dell’ingresso dell’Italia nel confronto-scontro tra nazioni, se non addirittura come benefiche e capaci di far nascere quel meraviglioso semi-protettorato dei balocchi che siamo da ottant’anni a questa parte. Non ci si rende conto che è dannoso descrivere la Prima guerra mondiale semplicemente come inspiegabile, assurda, incomprensibile. Ci si ostina a presentare la disfatta durante la Seconda guerra mondiale come la sconfitta del regime fascista, e non come la causa della crisi dell’idea di patria risalente all’Unità. E non si spiega perché la Resistenza, per le sue caratteristiche ideologiche, non ha potuto fare nulla per risollevarla. É questa l’attuale condizione catastrofica dell’istruzione nel nostro Paese, incapace di assolvere a uno dei suoi compiti fondamentali: la costruzione storico-ideologica dell’idea di patria come matrice di valori collettivi. Gli insegnanti italiani sono invece occupati nella produzione sistematica di disaffezione verso lo Stato che li impiega.
Cosa c’entra tutto questo con la protesta? Tutto. La storia del secolo scorso viene presentata dagli insegnanti italiani con un solo fine: perpetuare l’orrendo sopravvivere delle estetiche della loro inutile giovinezza, finendo per abituare i propri studenti a indignarsi per problemi che non li toccano. Sono gli ultimi epigoni dell’internazionalismo novecentesco e di quei principi di pace e cooperazione tra i popoli, che hanno trovato la loro espressione simbolica nella nascita delle Nazioni Unite – e da lì non riescono, né vogliono, uscire. Ci raccontano delle manifestazioni per l’Angola a cui partecipavano da giovani, ma non sono in grado di fare un discorso coerente sull’integrazione e sulla segregazione scolastica che avviene oggi nelle città italiane. Quanti sono gli istituti comprensivi a Milano nei quali un edificio è quello “buono”, mentre l’altro è quello “problematico”, cioè quello frequentato dai figli degli immigrati? Quasi tutti, e al corpo docente va bene, perché gli fa comodo. Così si evitano un sacco di seccature, cioè evitano di fare il proprio lavoro. Però portavano Pisapia in giro per le scuole milanesi a parlarci di cazzate, della città verde, mentre la sua amministrazione procedeva alla cancellazione dell’urbanizzazione regolata, tendenza iniziata con Letizia Moratti e che ha trovato il suo apice nell’amministrazione Sala. Per non parlare dei progetti in collaborazione con quel banco frigo di moralità surgelata che è Altromercato. Chiediamoci allora perché le uniche proteste che trovano una partecipazione cospicua sono quelle riguardanti problemi legati a contesti sociali e politici lontani? Perché sono quelle che ci hanno insegnato a considerare importanti. É colpa dei nostri insegnanti se l’unica estetica politica che troviamo attrattiva è quella novecentesca, se facciamo confusione tra lotte concluse e problemi attuali, se sovrapponiamo contesti, cause e simbologie.
Proviamo però ad andare più a fondo. Perché protestiamo per i problemi altrui, e non per i nostri? Risposta: perché i problemi tuoi sono più difficili da affrontare di quelli altrui. Punto. É più facile prendere le parti di una vittima che tutti già sanno essere vittima, contro un cattivo che tutti sanno essere tale, giusto per sentirsi più buoni. Le proteste per cose lontane convengono sempre: minimo impegno, massima resa sul proprio ego. Cosmesi politica per una facile autoassoluzione morale.
Per essere efficace, l’azione di protesta – rivoluzionaria, sovversiva o riformista che sia – deve essere preceduta e accompagnata da specifiche categorie di pensiero, strumento descrittivo dello stato di cose che si intende cambiare. Quando la realtà cambia, si devono cambiare gli strumenti attraverso i quali la si descrive. Se, a causa di un attaccamento affettivo, ci si àncora a delle vecchie categorie e si tenta di costringere la realtà mutata in esse, si subordina la teorizzazione politico-strategica, volta al cambiamento, alla riproduzione di un quadro teorico ormai obsoleto. I nostri insegnanti avevano le categorie di un mondo che pensava al futuro. Noi siamo invece una generazione che un futuro non ce l’ha, e che non riesce a fare nulla per ribellarsi al proprio destino. Incapaci di creare un impianto teorico utile a descrivere e cambiare la nostra condizione, ci accontentiamo di un immaginario ormai esaurito. Le categorie che ci vengono insegnate a scuola sono morte, perché il loro tempo è finito. Questi concetti ci illudono. Abbandoniamoli.