Zeitnot#7 L’Operazione Rising Lion e le sue ramificazioni globali

L’operazione Rising Lion, iniziata con l’attacco israeliano ai siti nucleari e alle élite militari iraniane del 12 giugno, ha riacceso nuovamente i fari sul Medio Oriente. Due numeri fa accennavo a come Israele avesse acquistato dagli Stati Uniti missili perforanti, ed oggi possiamo constatare l’utilizzo che ne è stato fatto. L’attacco israeliano ha colto di sorpresa un po’ tutti, probabilmente anche lo stesso Trump. Il presidente americano ha subito tenuto ad informare l’opinione pubblica di come fosse al corrente di tali azioni, ma gli ultimi mesi di tensioni ed antagonismi tra il presidente americano e il primo ministro israeliano fanno pensare che non sia così. Quello di cui si può essere abbastanza certi è che gli apparati militari americani, loro sì, ne fossero informati, e probabilmente abbiano spinto Israele a colpire.

La tregua raggiunta all’alba del 24 giugno sembrerebbe aver ristabilito la situazione di relativa pace tra Iran e Israele. Nonostante ciò, i reciproci attacchi, che hanno raggiunto picchi di criticità altissima in seguito ai bombardamenti americani del 22 giugno, hanno messo alla prova l’intero sistema internazionale, e tutti gli attori si sentono, o desiderano essere, coinvolti. Dai diretti interessati, agli Stati Uniti, ma anche Cina e Russia; per non parlare degli stati della regione che si trovano a pochi chilometri dalle esplosioni. Non è un caso che l’attacco israeliano sia avvenuto in questo momento. Sappiamo quello che sta succedendo a Gaza da due anni a questa parte, ed è evidente come l’attacco all’Iran fosse da lungo in preparazione. Secondo Israele, la giustificazione dell’attacco è stata la possibile minaccia esistenziale che si sarebbe concretizzata nel caso in cui Teheran avesse ottenuto l’arma atomica. In realtà la vera minaccia sarebbe stata un’altra: la fine del dominio militare assoluto e senza freni dal Sinai fino al Baluchistan. Perché è evidente che un Iran atomico ridimensionerebbe le velleità di Israele nella regione.

Da ciò che si legge e sente negli ultimi giorni, sembrerebbe che molti pensino che la prima cosa che fa uno stato quando acquisisce l’arma nucleare sia quella di bombardare a caso senza freni. Non esiste pensiero più sbagliato. Prima di tutto, se un soggetto ha la capacità di ottenere la bomba atomica vuol dire che si tratta di uno stato forte e solido, almeno in tempi di pace, indifferentemente dalla forma di governo che adotta. Ogni stato, purché sia difficile da credere in determinati casi, è un attore razionale, che ragiona in termini di costi e benefici. Anche il peggiore degli stati paria. E L’Iran non è da meno. Dalla rivoluzione del 1979, che ha posto fine al regno dello Scià, il paese è inserito in questa lista da parte di chi governa il sistema internazionale; la Corea del Nord, possessore dell’arma atomica dal 2006, è un altro membro di tale categoria. Quindi, anche se l’Iran entrasse in possesso dell’atomica, chiaramente non inizierebbe a lanciare ordigni a destra e sinistra senza alcun calcolo strategico così da procurarsi la sua stessa distruzione.

Dal punto di vista prettamente strategico-militare, le manovre di Israele sono state impeccabili, ancor di più visto che hanno anche condotto all’intervento diretto americano. Gli attacchi hanno in pochi giorni quasi completamente annientato la contraerea e le capacità di risposta iraniane, ottenendo il controllo aereo sulla capitale, decretando probabilmente la fine dello stato iraniano per come lo conosciamo. Gli attacchi chirurgici israeliani dei primi giorni ricordano la strategia americana adottata durante l’operazione Desert Storm del 1991. In quel caso, a differenza del 2003, gli americani colpirono accuratamente gli obiettivi militari ed infrastrutturali: la strategia della decapitazione del vertice aveva reso possibile il termine della guerra nel giro di poche settimane, evitando l’errore compiuto alcuni anni dopo con il coinvolgimento totale in Iraq. Secondo questa strategia, lo stato, nella sua connotazione di soggetto militare, andrebbe suddiviso in diversi cerchi che dall’esterno si stringono fino ad un nucleo. Ogni livello rappresenta un elemento che, a seconda della sua rilevanza, andrebbe colpito in caso di guerra. Nel nucleo, per importanza strategica, abbiamo ovviamente le élite politico-militari che dirigono lo stato durante il conflitto, poi a scalare ci sono: l’esercito e i suoi mezzi; le infrastrutture militari, come aeroporti o ferrovie; negli ultimi due livelli, ovvero quelli più delicati e da evitare, abbiamo le infrastrutture civili e la popolazione stessa, ultimo obiettivo che dovrebbe essere coinvolto nelle operazioni militari. Si può vedere come Israele abbia seguito una simile strategia nel caso dell’Iran, attaccando in principio i vertici militari, le basi missilistiche e contraeree, e i centri nucleari; anche se le vittime civili non sono state poche. Una simile strategia di attacco deve essere stata in preparazione da molto(si dice da novembre, ma ci troviamo di fronte ad un piano così complesso che sarebbe meglio parlare di anni). Dico ciò perché la neutralizzazione sistematica dei cosiddetti proxys dell’Iran – Hamas, Hezbollah e Houthi – sono stati sicuramente parte del piano, avviato probabilmente ancora prima del 7 ottobre 2023. Per non parlare poi dell’infiltrazione del Mossad nei vertici iraniani, processo anche questo che non si può condurre dall’oggi al domani.

Nonostante la drammatica evoluzione degli eventi, la situazione che si sta delineando in Medio Oriente rimane comunque favorevole agli Stati Uniti. La crisi in Iran colpisce principalmente la Cina, che può arrivare a perdere il principale fornitore di energia, ponendo ancora una volta gli Stati Uniti in una posizione di forza superiore rispetto al competitor. Se per gli apparati americani il conflitto Iran-Israele rappresenta un vantaggio, per Trump non è per nulla favorevole. La maggioranza della popolazione, soprattutto i sostenitori del movimento MAGA, condanna apertamente il possibile coinvolgimento in Medio Oriente, mettendo in estrema difficoltà il presidente, che è il primo a rendersi conto delle possibili conseguenze domestiche che scaturirebbero in caso di guerra con l’Iran, ora che manca meno di un anno alle elezioni di medio termine negli Stati Uniti. Il presidente di no boots on the ground sta rischiando di perdere uno dei cardini delle sue campagne elettorali. Tutte le vicende degli ultimi mesi – dazi, proteste interne, il contenzioso con Musk e ora la crisi in Medio Oriente con i bombardamenti sui siti nucleari iraniani – hanno eroso, ed erodono, la posizione del presidente; evidenziando come, soprattutto nel conflitto Israele-Iran, la figura del presidente sia meno centrale rispetto a ciò che lui stesso tenti di trasmettere. Trump, anche se dalle sue esternazioni vuole dimostrare altro, non avrebbe disdegnato un nuovo accordo sul nucleare, dopo aver abbandonato durante il primo mandato il trattato che Obama prima di lui aveva concluso; oggi quella speranza di accordo sembra essere irrimediabilmente compromessa, anche perché il principale negoziatore iraniano, Ali Shamkhani, è stata una delle prime vittime dei missili sparati da Israele. Trump oggi sembra tutto tranne che un presidente in controllo della situazione e attraverso le sue roboanti dichiarazioni cerca solamente di concentrare su di sé l’attenzione, provando così a riguadagnare una centralità ed una rilevanza effettiva che tuttavia non ci sono, e probabilmente non ci sono mai state. Se gli apparati vogliono una guerra, con chicchessia, Iran, Cina o fate voi, la creeranno con o senza l’approvazione, o addirittura la consapevolezza, del presidente.

Il grande sconfitto, in termini strategici di lungo periodo, è sicuramente la Cina. La Repubblica Popolare, da quello che si prospetta, potrebbe perdere il suo principale alleato nella regione, nonché il primo fornitore di gas e petrolio al cui fianco si è immediatamente schierata. In uno dei raid Israele ha colpito il giacimento di gas più grande del mondo: South Pars sul Golfo Persico, nel cui sviluppo la China National Petroleum Corporation è subentrata alla Total, ledendo profondamente gli interessi cinesi. Al contrario, Israele si è ben guardata dal colpire la centrale nucleare nella quale è presente personale russo. La difesa di Teheran rimane però esclusivamente superficiale ed inconcludente, visto che la Cina potrà fare ben poco per difendere il suo alleato sul terreno. Evidenziando ancora una volta quel senso di impreparazione e diffidenza che la Cina sembra trasmettere nel momento in cui dovrebbe fare quel salto che ci si aspetterebbe da una cosiddetta Grande Potenza globale. Gli Stati Uniti questo lo sanno molto bene e si fregano le mani. Sebbene la Cina continui ad espandersi economicamente e politicamente in tutti i continenti, rimane evidente come a tale espansione si affianchi l’incapacità e l’abulia cinese di agire quando davvero serve, e l’Iran ne sta diventando il principale esempio. 

La Russia si trova invece in una posizione di esclusione che pesa sul governo di Mosca. Putin si è mostrato disposto a mediare tra Israele, grande alleato della Russia (non va mai dimenticato), e l’Iran, che sulla carta sarebbe stretto partner russo e contribuente al rifornimento di droni usati nei campi ucraini. Ma, in seguito alla proclamazione della tregua, non è stato ancora chiarito se abbia avuto un ruolo significativo nelle trattative. Gli eventi hanno dimostrato come il rapporto tra Teheran e Mosca sia ben diverso da quello prospettato prima del 12 giugno, o addirittura prima dell’invasione dell’Ucraina e la guerra a Gaza. La marginalizzazione della Russia nelle vicende mediorientali è un problema enorme per Putin, che vede uno dei paesi più popolosi nel suo estero vicino in una situazione di disordine e crisi senza precedenti. Abbiamo ormai capito come la guerra in Ucraina non possa essere persa dalla Russia. Tuttavia, i veri problemi futuri per Mosca sembrano comparire su altri fronti, trascurati proprio a causa del prolungamento dello scontro con Kiev. L’abbiamo notato in Siria, nelle relazioni con la Cina, ed infine ora in Iran, che sembra essere l’ennesimo esempio di incapacità russa di far pesare le proprie ragioni in altri contesti durante l’impegno in Ucraina.