Il viaggio mediorientale del presidente Trump è stato uno degli eventi clou delle ultime settimane, calamitando le attenzioni delle cancellerie e delle agenzie di stampa globali; il tycoon ha visitato diversi paesi della regione scatenando reazioni contrastanti negli Stati Uniti, e non solo. Il viaggio in Medio Oriente ha lasciato perplessi, in molti si sono immediatamente lanciati in affermazioni avventate che vanno dal blando sostegno per una riappacificazione con la popolazione musulmana della regione, sino al più profondo dissenso per una campagna, che soprattutto agli occhi dei suoi più fedeli sostenitori, rappresenterebbe un abbandono dell’alleato israeliano in favore di “jihadisti in smoking”, come sono stati definiti i leader dei paesi visitati da alcuni dei grandi supporter trumpiani. Un proverbio dice che con la volpe convien volpeggiare: nell’interagire con qualcuno che fa il furbo, è necessario mostrarsi sullo stesso piano per non essere da meno; Donald Trump è molto furbo, forse solo in Italia ed in Europa pensiamo sia un pazzo, ma è chiaro come ogni mossa del presidente non sia casuale. Il tour del presidente, svolto in questo preciso momento storico, ne è la dimostrazione perfetta. D’altronde, l’itinerario dell’inquilino della Casa Bianca ha stupito un pò tutti, e tra mancate visite, doni multi-milionari ricevuti ed incontri con ex membri di Al-Qaeda, di tempeste di sabbia se ne sono alzate parecchie.
Ormai abbiamo capito come Trump voglia entrare nella storia, e di tempo per farlo non sembrerebbe esserne rimasto molto, o comunque coloro che voglio impedirglielo sono sempre di più, soprattutto dall’interno; perciò, non devono più stupirci i suoi colpi di scena nell’arena internazionale, come sicuramente è stata la paradossale dichiarazione di voler riconoscere lo Stato palestinese, affermazione prontamente smentita dall’establishment americano. Tuttavia, tali esternazioni hanno infastidito, e non poco, le frange più estremiste dell’ideologia MAGA, le quali hanno guardato con sgomento ed irritazione alle mosse del presidente. Una delle influencer di spicco del movimento, Laura Loomer, che solo poche settimane fa era ospite alla casa bianca e veniva eretta da Trump come baluardo del suo pensiero conservatore, ha criticato aspramente il presidente e l’amministrazione già diverse volte: contro Musk per l’apertura ai lavoratori immigrati specializzati, poi verso Trump per aver sostenuto ed approvato Leone XIV, etichettato come “anti-Maga e marxista” dalla stessa Loomer, per arrivare infine all’attacco più pesante in seguito al viaggio in Medio oriente e tutto ciò che ne è conseguito: sanzioni rimosse alla Siria, il Boeing 747 ricevuto dall’Emiro del Qatar, ed il paventato riconoscimento della Palestina.
E’ ben noto quanto il Medio Oriente sia fondamentale nei rapporti di potere nel sistema internazionale contemporaneo: chi lo controlla gestisce le principali rotte marittime della globalizzazione, Mar Rosso e Bab-el-Mandeb, supervisionando al contempo l’estrazione e l’esportazione petrolifera nella regione. La cruciale posizione geografica e la ricchezza estrattiva lo rendono snodo chiave e risorsa indispensabile per il mantenimento dell’egemonia americana. Non casualmente il tour è cominciato pochi giorni dopo la fine dei bombardamenti verso le navi nel Mar Rosso da parte degli Houthi, che sono stati letteralmente rasi al suolo dai missili americani e costretti a raggiungere un accordo con Washington. Conosciamo tutti il mito degli Stati Uniti che si gettano a capofitto non appena individuano un territorio ricco di risorse, petrolio in particolare; tuttavia, le cose stanno diversamente. Il controllo americano sul Medio Oriente deve essere interpretato come una risorsa di potenza indiretta, poiché gli Stati Uniti non dipendono più dal petrolio Medio-orientale; il vero scopo della presenza americana nella regione è quello di evitare che altre potenze, prima fra tutte la Cina che ha nella dipendenza energetica dall’estero la sua più grande vulnerabilità, possano godere liberamente di simili risorse.
Una distinzione va fatta però nel raccontare le motivazioni che hanno portato all’incontro con il neo-presidente siriano al-Shara, ex affiliato di Al-Qaeda ed etichettato da Trump come “un duro, un combattente ed un vero leader”. Sebbene tali dichiarazioni e l’eliminazione delle sanzioni alla Siria abbiano spaccato profondamente i sostenitori trumpiani in patria, l’azione ha avuto uno scopo ben preciso. In seguito alla sconfitta di Assad, e di conseguenza di Putin, gli Stati Uniti, e soprattutto la Turchia, stanno cercando di inserirsi formalmente nel paese, tentando di spartirsi la nuova Siria in via di pacificazione, senza doversi preoccupare dell’ingerenza della Russia, che, troppo concentrata sul fronte ucraino, non può spendersi attivamente anche in quel teatro, nonostante al-Shara si guardi bene dal cacciare i russi dalle due basi militari presenti nel paese. Ho citato anche la Turchia, un attore da non sottovalutare nel panorama medio orientale, ma non solo. Erdogan, in seguito allo scioglimento del PKK e del conseguente allentamento delle tensioni con la popolazione curda, avrà la possibilità di concentrarsi maggiormente sul resto della regione. La Turchia è un attore dinamico ed impegnato, i suoi interessi strategici vanno dall’Europa Orientale fino all’Asia Centrale, con un’attenzione particolare al Mediterraneo, al Mar Rosso e nel Medio Oriente. Tuttavia, la volontà imperiale turca, figlia del passato ottomano, porta ad una grande ambiguità: la Turchia è membro dell’Alleanza Atlantica dal 1952, tenta invano da anni di aumentare la cooperazione con l’UE, ma al contempo strizza un occhio alla Russia e nutre forti tensioni con alcune piccole potenze mediterranee, Grecia fra tutte. Tale ambiguità non sarà tollerata all’infinito, perché va ricordato che la doppiezza nelle relazioni internazionali, tanto quanto la neutralità, saranno accettate sempre meno dalle grandi potenze, prima fra tutte quella che controlla la più importante alleanza militare di cui la Turchia è membro chiave, cioè la Nato.

Il grande deluso dal viaggio del presidente americano è stato sicuramente Benjamin Netanyahu. Trump ha evitato di fermarsi in Israele, preferendo incontrare altri capi di stato, sembrando quasi mostrare un cambio di portamento strategico americano verso l’inseparabile alleato; tuttavia, non bisogna assolutamente interpretare l’animosità personale tra i leader come un cambio epocale delle relazioni bilaterali tra i due paesi, mutamento che molto probabilmente non avverrà mai. Trump lo conosciamo, non si è mai fatto problemi ad attaccare tutti, nemici ed alleati, ma qui si parla di Israele, il punto fermo americano in Medio Oriente. Questa visita mancata va intesa come un semplice sgarbo, un dispetto da parte di Trump verso un Netanyahu che segue sempre meno i dettami del potente alleato d’oltreoceano, senza che questo possa però intaccare seriamente la collaborazione tra i due paesi. Negli ultimi tempi, Trump si è mostrato profondamente indispettito dal comportamento di Netanyahu, sia verso Gaza e i Palestinesi sia nei confronti dell’Iran, paese con cui Washington sta tentando di raggiungere un delicato accordo sul nucleare. Di conseguenza, Israele ha rincarato la dose: è di pochi giorni fa la notizia che Israele sarebbe pronto a riprendere la dottrina preventiva Begin con l’obiettivo di colpire le centrali nucleari iraniane, interrate nei Monti Zagros per evidenti necessità di sicurezza – per conferme chiedere a Siria ed Iraq -, utilizzando per tale scopo missili perforanti statunitensi, modificati ad hoc dall’IDF. Tutto ciò senza l’approvazione americana.
Trump, e come ancor prima di lui Obama, non disdegnerebbe un accordo sul nucleare, civile e militare, con la Repubblica Islamica; un’intesa che renderebbe decisamente più stabile e sicura la regione, agendo da freno all’incontrollata azione di Israele, permettendo così agli americani di non rimanere direttamente coinvolti ora che la sfida con la Cina si fa sempre più incandescente e la guerra in Ucraina è tutt’altro che risolta. Abbiamo ormai imparato a capire come le scelte di Israele abbiano un effetto diretto sul panorama politico americano: molti sostenitori di Trump sono cristiani protestanti – evangelici in particolare – che nutrono verso Israele un sostegno incondizionato, per non parlare della cosiddetta “lobby ebraica”, che secondo molti controllerebbe direttamente la politica estera americana in Medio Oriente. Trump sa meglio di chiunque altro interpretare il sentimento della nazione, ed è per questo che da un lato non può abbandonare Israele, mentre dall’altro deve temere e placare l’impudenza di Netanyahu, perché sa che un attacco israeliano verso le centrali nucleari iraniane trascinerebbe gli Stati Uniti in una spirale crescente di coinvolgimento con l’ultimo “stato canaglia” rimasto nella regione, inimicandosi l’opinione pubblica americana che si è affidata, sia nel primo che nel secondo mandato, al motto del presidente, coniato in realtà dal suo predecessore Obama: no boots on the ground, imponendo così la via del disimpegno controllato e non quella dell’interventismo sconsiderato.
“Come mi giudicherà la storia? Se avrò successo, ecco che tutti quanti vorranno aver parte della gloria… Ma se fallisco tutti vorranno il mio sangue”. Questo scriveva la più celebre “volpe del deserto” Erwin Rommel durante il secondo conflitto mondiale, ed è facile capire come il secondo mandato di Trump, fino ad ora, rappresenti perfettamente tale paradigma: da un lato c’è l’opinione pubblica, divisa tra coloro che chiedono il sostegno incondizionato ad Israele, ma che al contempo non vogliono ulteriori coinvolgimenti diretti nella regione, memori delle guerre in Iraq ed Afghanistan; e coloro che vedono in Israele il primo dei problemi della politica estera americana. Dall’altro lato ci sono gli apparati, che spingono sull’acceleratore per aumentare i fondi alla difesa e l’interventismo americano; ma il numero di problemi per Trump continua: gli alleati nella regione, i nemici interni ed esterni al Medio oriente, l’influenza russa e cinese. Insomma, solo il tempo ci darà le risposte, tuttavia, è evidente che la situazione in cui si trova il presidente è tutt’altro che invidiabile.