Zeitnot #2: Veni, Vidi, Vici

In questo secondo appuntamento della rubrica vorrei concentrare la mia analisi sul ruolo e l’influenza di colui che più di ogni altro personaggio politico globale si trova a determinare le sorti della geopolitica, almeno fino ad ora: Donald Trump. Navigando tra le sue dichiarazioni, i suoi ricatti, e le sue attuali battaglie, cercherò di analizzare e spiegare alcune delle strategie che si evolvono e si sviluppano alle spalle delle teatrali dichiarazioni del vertice geopolitico globale. Immagino che il titolo potrà far storcere il naso a qualcuno, lungi da me paragonare le due figure, ad ogni modo la celebre frase di Cesare, pronunciata nel 47 a.C. in una delle tante campagne romane in Asia minore, sembra perfetta per descrivere la strategia e l’atteggiamento trumpiano nello svolgimento delle funzioni di presidente. Velocità e schiettezza sono due dei perni su cui ruota il programma del neo-presidente. Tra dazi, accuse agli avversari e agli alleati, accordi di pace, e dichiarazioni di ogni genere la sua figura è stata il fulcro di questi pochi mesi post-insediamento. Ragion per cui, proprio l’espressione cesarea sembrerebbe racchiudere l’essenza di Donald: arrivo, risolvo tutti i problemi il più velocemente possibile e ne esco come eroe della patria, e magari del mondo.

La nostra percezione di Trump è decisamente ingigantita dai media e dalla propaganda a cui siamo giornalmente soggetti, non è sicuramente una figura rassicurante, sia chiaro, ma va ricordato che tantissime delle cose che desidera attuare sono semplicemente irrealizzabili, e già diversi dei suoi temuti ordini esecutivi sono stati rigettati dalla Corte Suprema americana, a maggioranza repubblicana. Oramai abbiamo terrore ogni volta che appare tra le notizie il suo nome, un pazzo senza freni che decide le sorti del mondo. Tuttavia, sarebbe errato considerare Trump come un cavallo imbizzarrito lasciato scalciare e galoppare senza limiti e restrizioni, sicuramente questo è quello che vorrebbe lui, il suo grande sogno: ma ciò non è possibile. Il motivo? I tanto odiati apparati del deep state americano, quella burocrazia e quelle agenzie governative sommerse che limitano e bloccano le sbandate del presidente e si frappongono a questa aspirazione. La storia americana all’indomani della Seconda guerra mondiale ci racconta che i poteri del presidente in politica estera non sono nemmeno lontanamente paragonabili a quelli che Trump e la gran maggioranza delle agenzie di comunicazione ci fanno percepire; indubbiamente già solo essere il presidente americano concede dei poteri anche solo d’influenza, ma va ricordato che tra agenzie intergovernative, separazione dei poteri e altri “freni democratici”, le possibili decisioni unilaterali diminuiscono enormemente. Un esempio che magari può stupire qualcuno sono i noti dazi; i quali, secondo la legge americana, non potrebbero essere imposti dal presidente senza l’approvazione del Congresso. Il condizionale è d’obbligo data la presenza di due leggi: Il Trade Expansion Act del 1962 e il Trade act del 1974. La prima consente al presidente di modificare le tariffe per motivi di sicurezza nazionale, mentre la seconda permette al presidente di imporre tariffe per contrastare pratiche commerciali sleali. Queste deleghe, e non mandati costituzionali, permettono di imporre “sanzioni”, che con Trump si trasformano in dazi, verso paesi terzi; Biden applicò lo stesso meccanismo per imporre i dazi alla Russia nel 2022. 

Per analizzare i tanto temuti dazi dobbiamo andare oltre alle funeste dichiarazioni che fanno crollare borse e agenzie finanziarie. I dazi non sono pensati come numeri casuali,  ormai sappiamo bene come siano fondamentalmente un’arma politica e non economica; tali sanzioni vanno ad incastonarsi in una strategia più grande, che svaria dalla necessità di isolamento cinese all’esclusione russa dalle sanzioni, fino ad arrivare alle porte di casa nostra con l’affossamento dell’economia tedesca, profondamente interconnessa all’industria cinese. 

Proprio la Cina, e questo non è mai stato un segreto, è il primo problema della politica estera americana. Già nel suo primo mandato, Trump ha identificato nella Cina il nemico dell’egemonia americana, tentando già in quei primi anni di presidenza di intavolare discorsi con la Russia in funzione anti-cinese, ma venne bloccato da quei tanto odiati apparati, CIA fra tutte, che intercettò le sue chiamate con Zelensky riguardanti il figlio di Biden, costandogli così il suo primo impeachment. Le agenzie si opposero irremovibilmente all’apertura alla Russia, semplicemente perché non era il momento adatto e lo scacchiere geopolitico non concedeva questa possibilità. Eppure, quattro anni dopo, il vento è decisamente cambiato: la posizione di informale sudditanza russa verso la Repubblica Popolare, dovuta alla tremenda conduzione della guerra in Ucraina, preoccupa sia Trump che le agenzie stesse, che mirano chiaramente alla dissoluzione della convergenza sino-russa. Proprio i dazi alla Cina e una risoluzione con la Russia sembrano essere la chiave della strategia americana; la quale risiederebbe sul lungo periodo nell’“azzoppare” l’economia e l’approvvigionamento energetico cinese, così da minare la legittimità stessa del partito comunista, che in tal caso si troverebbe in difficoltà immense nella redistribuzione della ricchezza tra la costa e le più arretrate campagne, politica necessaria ad evitare frizioni e proteste all’interno del colosso asiatico. Parallelamente a ciò, il sistema di alleanza coi paesi asiatici, intimoriti dalla vicinanza cinese, e la strenua, anche se parzialmente celata, difesa di Taiwan verrebbero rafforzate. 

Infine, passando all’Italia e all’Europa, si può facilmente capire come in questo caso i dazi derivino da rabbia e insoddisfazione verso i paciosi e molli europei, che campano sulla difesa e la pace economica garantita dagli Stati Uniti. Questi dazi sono il terrore dei governi europei, pronti a strisciare a Washington per chiederne la cessazione, cosa che sembrerebbe essere stata concessa per 90 giorni. Queste sanzioni colpiscono principalmente quei paesi manifatturieri che giovano più di altri del collasso dello stesso settore negli USA. Questi accusati hanno due nomi: Italia e Germania. Il collasso manifatturiero americano, voluto negli anni ‘70 da loro stessi per diventare compratori di ultima istanza e creare dipendenza degli altri paesi esportatori, non verrà sicuramente riparato da queste sanzioni irrisorie rispetto alla crisi profonda vissuta dai centri industriali del Mid-west americano, la cosiddetta Rust belt.

Macroregioni americane e principali centri manifatturieri in crisi

Proprio Trump si espone come portavoce di questa insoddisfazione americana verso l’importazione di merci che a parer di popolo sarebbero meglio prodotte in quelle aree. Chiaramente, queste sanzioni non daranno quella linfa necessaria alla ripresa economica, nonostante ciò si tratta di un’arma eccezionale per piegare al proprio volere i deboli e disgregati paesi europei, che si affannano a chiamare Washington senza realmente considerare le conseguenze di quelle azioni, ed al contempo ad ottenere il sostegno dell’opinione pubblica americana. Per concludere in tema con il titolo, questa strategia di Trump ci riporta ancora ad una locuzione romana che oggi come non mai sembra perfetta per definire il portamento dell’esecutivo americano verso gli alleati europei: Divide et Impera.