Divenire donna

Divenire donna

 In quanto donna non ho patria, in quanto donna non voglio patria alcuna, in quanto donna la mia patria è il mondo intero

Three Guineas, Virginia Woolf

Nel 1938 Virginia Woolf lasciava trasparire con una sola frase la sua peculiare condizione esistenziale: una donna diversa dalle aspettative della società, che non poteva trovare pace in nessun dove, osteggiata e non compresa perché differente; una donna cittadina del mondo, ma anche una sorta di esule planetaria.

A partire dall’osservazione dell’autrice, l’esilio planetario è diventato un topos negli studi femministi perché in grado di spiegare la condizione di tutte le donne e evidenziare ciò che le accomuna: l’essere senza dimora e senza punti fissi.

Penso sia forte l’esigenza di porsi in modo critico di fronte a questa suggestione e chiedersi oggi se il sentimento che accomuna le donne sia in linea con quanto scritto sopra, oppure no; come bisogna intendere il soggetto femminile?

La voce di Rosi Braidotti, filosofa e teorica femminista italiana naturalizzata australiana (1954), viene qui proposta assieme ai volti delle donne che animano le fotografie di due fotografe italiane, Paola Agosti e Elisabetta Catalano, che furono particolarmente attive tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso. Le loro fotografie, come i testi della filosofa, testimoniano quanto il pensiero sulla femminilità e la percezione stessa dell’essere donne siano in continuo cambiamento; esse aiutano ad orientarsi di fronte all’osservazione di Virginia Woolf che, per quanto affascinante, lascia, a pensarci bene, un po’ spiazzati: abitare tutto il mondo significa sentirsi valorizzate come persone, in quanto cittadine del mondo, o significa, in quanto esuli planetarie, vagare nel mondo come emarginate?

La filosofa, in Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, introduce una visione originale dell’essere donna, intesa come soggettività nomade. Scrive che il soggetto nomade è la “rappresentazione teorica più rispondente alla soggettività contemporanea”, una soggettività mutata rispetto al passato, la cui identità si forma liberamente e svincolata da schemi di pensiero predefiniti, dualistici ed oppositivi che presupponevano la differenza come elemento svalutante, sia che questa fosse differenza culturale/etnica, sia che fosse sessuale.

La crisi di questo modo di pensare “vecchio” e “fallologocentrico”, che ha determinato la storica condizione di subalternità del soggetto femminile a quello maschile sedicente universale, costituisce secondo le femministe altro che(da?) un tramonto di valori per cui dispiacersi. La crisi della modernità è una grande opportunità: ha aperto spazi di possibilità per la ri-definizione della soggettività femminile. L’identità di ciascuna persona, ed in particolare di ciascuna donna, non è mai definibile come una “essenza monolitica”, ed è per questo che è nomade; è sfaccettata, stratificata, è il “luogo di un insieme di esperienze molteplici, complesse e potenzialmente contraddittorie, un luogo definito dalla sovrapposizione di variabili come la classe sociale, la razza, l’età, lo stile di vita, le preferenze sessuali, e così via” dove nessuna prevale sulle altre.

L’approccio teorico del nomadismo femminista è l’unico, secondo l’autrice, in grado di presupporre le differenze tra le identità, ma anche in grado di trascenderle. Cioè, l’etica nomade non considera come essenziali le differenze che strutturano le identità di ciascuno. Proprio per il suo essere anti-essenzialista, l’etica nomade è un’etica “inclusiva e non escludente” che si propone di pensare la differenza in un modo diverso rispetto a quello dualistico-oppositivo tradizionale, entrato in crisi verso la fine del XX secolo.

In quanto soggettività nomadica, l’identità femminile si modella continuamente grazie alle reti di interconnessione, o di “prossimità empatica”, che si tracciano tra persone che si incontrano e che instaurano relazioni durature o effimere. Le identità si contaminano, “transitano” per esperienze e condizioni differenti  per mezzo degli “spazi intermedi”, ovvero gli spazi di scambio, di incontro tra soggettività diversificate.

In questo senso il nomadismo è costruttore di identità che “divengono” in un continuum che non ha un punto di arrivo o una realizzazione predefinita: “gli spostamenti nomadici segnano un divenire creativo” fatto di partecipazione, contaminazione, mimesi, con l’“altro”.

È sorprendente come le fotografie di Paola Agosti e di Elisabetta Catalano sembrino essere state scattate su misura per esprimere il pensiero della filosofa, ponendosi in sintonia con esso. Transitando per le loro fotografie si incontrano soggettività diversificate che si lasciano ammirare e che nel contempo interrogano attivamente chi le guarda. Invitano, in questo spazio intermedio che si apre, a ripensare la propria identità, senza che la si consideri come già ben fatta e costruita. Un esplicito invito al nomadismo dunque, non solo inteso come strumento teorico ma come condizione esistenziale.

Il nomadismo delle protagoniste delle fotografie della Agosti è presente nel forte desiderio di mutamento esistenziale che si realizza attraverso l’azione collettiva e politica, mezzo attraverso il quale ritagliarsi questo spazio reale di possibilità e di cambiamento; la lotta dei gruppi femministi degli anni 70 rivendicava il riconoscimento di diritti della donna e, come scriveva la giornalista Adriana Seroni, era necessaria, ieri come oggi, una “riacquisizione individuale di una coscienza di sé liberata dai condizionamenti di una cultura degli uomini: una ricerca di sétramite la cittadinanza attiva. (La questione femminile in Italia, 1970-1977)

Roma, 8 marzo 1977

Andando oltre le fotografie stesse, raggiungendo e poi oltrepassando la pellicola di questi rullini bianco-nero, si scopre che anche gli occhi della fotografa sono finestre di una soggettività nomade: Agosti ebbe il coraggio di coltivare la professione della fotografa, che al tempo era interamente maschile, e di realizzarsi in essa malgrado la prepotenza dei colleghi uomini che facevano di tutto per aggiudicarsi sempre la visuale migliore.

Roma, 8 marzo 1976 manifestazione

Roma 11 dicembre 1978, Redazione Quotidiano Donna

Come nelle fotografie di Paola Agosti, anche in quelle di Elisabetta Catalano, sono donne nomadi le protagoniste; si vedono personalità di spettacolo, scrittrici, modelle, immortalate in momenti di autentica spontaneità, di libertà dei movimenti, di trasgressione, senza che sia imposto loro un modo “giusto” per venire ritratte. Grazie alla fotografa, queste donne scoprono la libertà di essere guardate in un modo diverso, inusuale, che non pensavano gli appartenesse ma che ora esprime la loro personale femminilità. Il nomadismo quindi si traduce nello spazio della trasgressione, del tradimento dell’immagine fissa e monolitica del sé che si credeva autentica.

Senza dubbio in questo continuo divenire donna non mancava, e non manca, la fatica di uscire da schemi sociali predefiniti ed essere soggetti attivi, liberi di muoversi negli spazi di possibilità propri dell’etica nomade. D’altra parte il soggetto femminile è stato storicamente abituato ad essere definito da altri, piuttosto che a definirsi autonomamente. Ad esempio, Elisabetta Catalano in un’intervista disse: “Monica Vitti si mostrava sempre nello stesso modo, oramai era solo un personaggio di Antonioni, ho cercato di lasciare che si esprimesse”.

Monica Vitti, San Felice Circeo, 1978, Roma

Natalia Ginzburg nella sua casa, 1973, Roma

L’attitudine all’apertura e al rifiuto di rigidità non deve far pensare che i soggetti nomadi siano indefiniti, anonimi, privi di dimora e esuli. La donna nomade è “un soggetto (…) che esprime il desiderio di un’identità fatta di transizioni, spostamenti progressivi, mutamenti coordinati”, ma che è d’altra parte anche “collocata” nella differenza – in primis sessuale – che la caratterizza, nella storia che la precede, nella cultura che ha inevitabilmente concorso alla formazione della sua identità. Riprendendo ad esempio gli scatti di Agosti, collocarsi nella differenza significa rifiutare un’idea di un emancipazionismo inteso come la mera omologazione della donna all’uomo o l’estensione dei diritti dell’uomo alla donna, ma rivendicare dei diritti in quanto donne. Non si deve perdere di vista il perno di tutta la riflessione che è la concezione anti-essenzialistica della differenza che così intesa non implica né una gerarchia, né la presenza di una “alterità svalorizzata” solo perché differente.

Ecco perché la soggettività femminile non è esule ma è nomade, e come coscienza nomade può dirsi anche collocata:

Il nomadismo a cui mi riferisco ha a che fare con quel tipo di coscienza critica che si sottrae, non aderisce a formule del pensiero e del comportamento socialmente codificate. Non tutti i nomadi viaggiano per il mondo; alcuni dei viaggi più straordinari si possono fare senza spostarsi fisicamente dal proprio habitat. Lo stato nomade, più che dall’atto di viaggiare, è definito dal ribaltamento delle convenzioni date.

Rosi Braidotti

Bibliografia

Rosi Braidotti (a cura di Anna Maria Crispino), Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, Roma, Donzelli Editore, 1995

R. Braidotti, E. Magini, C. Perrella, Soggetto nomade, identità femminile attraverso gli scatti di cinque fotografe italiane 1965-1985, Roma, Nero Editions, 2020

Adriana Seroni, La questione femminile in Italia 1970-1977, Roma, Editori Riuniti, 1977

Viaggio in Italia: fotografare frammenti di un Paese

Viaggio in Italia: fotografare frammenti di un Paese

Viaggio in Italia: progetto fotografico del ‘84 di Luigi Ghirri affiancato dagli scritti di Gianni Celati.

Subito il titolo a ricordarci l’opera di Goethe e, per antonomasia, l’intera tradizione del Grand Tour. Si svela così il primo interlocutore del progetto. Ma, al contempo e soprattutto, la più generale consapevolezza che sempre “viaggio in Italia è viaggio dentro l’immagine”. Questo per dire: lo sguardo sull’Italia è sempre immaginario, sempre filtrato da una tradizione iconica che da secoli vuole dirci, in vario modo, cosa l’Italia sia. In questo contesto, uno dei più imponenti “ritratti mitici” dell’Italia è, appunto, quello ereditato dalla secolare tradizione del Grand Tour: antichità romana e classicismo rinascimentale. Si stava delineando, in quel frangente, la fisionomia di un turismo moderno nella penisola e con esso la necessità di una produzione d’immagine. Ne fecero da perno da un lato il gusto per il pittoresco e il bucolico, dall’altro la predilezione per il monumento. Tuttavia, se è vero che tutto questo si consolidò lungo il XVIII-XIX secolo in pittura, anche la fotografia del XX ne condivise (ereditandola) l’inclinazione fondamentale. Ci ritroviamo ora per le mani una cartolina: ma che altro raffigura se non ancora piazza San Marco (sempre sotto il solito scorcio), o qualche tranquillo pescatore sul molo – idillico folklore locale.

È un’immagine certa dell’Italia, tutta d’un pezzo, senza indecisioni, che cerca tenacemente d’incardinarsi sul grandioso od umile “c’era una volta”. L’arte era animata dalla certezza di un Paese che sapeva di edificare la propria identità su un terreno saldo. Vien da sé che il fascismo attinse abbondantemente a questo immaginario che, ciononostante, non capitolò con esso ma sopravvisse anche nel dopoguerra. “Così il mito della genuinità della campagna, delle antiche abitudini viene costruito, proprio quando l’Italia si avvia finalmente allo sviluppo industriale” degli anni ’50 -‘60.

Rispetto a tutto ciò, Ghirri e Celati hanno in mente un diverso panorama: l’Italia dei “margini”, dei “capolinea”, periferici, anche industriali. È, quindi, Viaggio in Italia un’arte che vuole essere per la propria epoca? Una documentazione di un mutamento sociale? In parte sì – in quanto esce da mitologie antiquarie – ma, ad uno sguardo più attento, no. Sono altri quelli che “cercano solo “le ragioni” del mondo, dunque prendono ogni immagine solo come apatica informazione sul funzionamento esterno”. Non c’è alcuna volontà documentaria, storica sociale politica, nessuna spiegazione da fornire; soltanto apparenze che si mostrano. “Parlando in quella lingua di grosse parole (sociologiche o altre) che spiegano tutto, diventa difficile accorgersi ogni tanto d’esser qui”. “Ad ogni epoca la sua arte” non nel senso di un nuovo soggetto fotografato, più moderno e attuale, piuttosto un nuovo presupposto dello sguardo – che è attirato, certamente, anche da nuovi e inediti soggetti.

Ecco arrivati al punto, tirando le fila di quanto detto. In una parola, Viaggio in Italia contrappone all’intero il frammento. La cartolina non ha esitazioni; il documentario sociale si regge su un sicuro senso del mondo. A questa immagine compatta, completa, totale dell’Italia, viene contrapposta una sghemba composizione di frammenti. Dell’Italia si vede la contraddittorietà, banalità quotidiana, che mai si riconcilia in un quadro d’insieme. “Da queste foto non si riesce a cavare nessuna generalizzazione del tipo: “cos’è l’Italia”. Sono solo cose che “sono là”, si fotografa il loro semplice apparire, disconnesso, che accade”. Un casale abbandonato, un silos di periferia, non certo la grande Italia romana. Raggiunta la consapevolezza che nel quotidiano abbiamo per le mani solo questi frammenti sparsi, cosa resterà mai da spiegare? Si tratta, piuttosto, di guardare, descrivere con una “passione per il mondo così com’è (non il mondo come dovrebbe essere per essere migliore o perfetto)”.

Ripulito lo sguardo dalla “caterva di valutazioni ideologiche, morali o di gusto, che cancellano l’esperienza del vedere”, cosa resta? Cosa ci si mostra? O, ancor meglio, come ci si mostra quel mondo che, pur sempre, già prima vedevamo? Apparenze casuali e sparse. Iniziamo da questo termine: “apparenza” – usatissimo da Ghirri e Celati. Racchiude un duplice significato: “ciò che si mostra” (appare, appunto), e dall’altro “finzione che nasconde qualcosa di più reale” (“è tutta apparenza!”). In Viaggio in Italia i due sensi si mischiano. Il nostro mondo, che ci si mostra, è finzione ed illusione. Sembra il classico tema della vita come sogno – prima orientale, poi spagnolo e portoghese – dove al sonno si contrappone la verità che dietro a questo si confonde. Ma quale verità si cela nell’Italia del ‘84? Nessuna. Viaggio in Italia ci mostra una realtà di apparenze mute, di superfici senza profondità, di finzioni senza verità retrostanti. “La commedia delle apparenze continua sempre là fuori”. Ci viene in soccorso la metafora barocca del mondo-teatro. Ma a differenza del ‘600 – dove dietro la finzione mondana c’era la realtà della morte e rinascita -, qui il teatro è preso alla lettera: questo, come il nostro mondo, è certamente una finzione, ma mai ci chiederemmo se il palcoscenico nasconda una realtà dietro a sé. Il mondo è messinscena, e, tuttavia, è tutto qui e soltanto questo. Soltanto questo spettacolo – finzione teatrale – al quale assistiamo. Nient’altro che “una trama di rapporti cerimoniali per tenere insieme qualcosa d’inconsistente […] l’astratto gioco del mondo”.

I margini del Bel paese ci hanno svelato che l’Italia tutta è questo nulla di fatto, nulla di eccezionale.

“A tratti le mosse degli altri sembrano pose per tenere in piedi una rappresentazione senza senso. Impressione d’un ordine vuoto che si ripete dovunque e per nessun motivo. Nelle metropoli tutti si aggrappano gli uni agli altri in amori soffocanti, per non sentirsi persi in quell’ordine vuoto che si ripete senza motivo. Qui [ai margini] c’è piuttosto il senso che le cose stiano così e basta, e non ci sia poi una gran differenza tra quella ripetizione perpetua e lo spuntar di arbusti a caso lungo una strada”.

Gianni Celati, Verso la foce

Sorge, infine, il problema della forma: in che modo rappresentarla, questa Italia – una sempliciona senza santi in paradiso? Nella “metropoli” è fiorito il grande romanzo di formazione, l’opera mondo che tutto comprende in sé. Nel grandioso incedere della sua trama ogni vicenda acquista un senso in virtù dell’essere una parte di un tutto, fino a giungere al finale, che assume tutto e a tutto dà coerenza. Periferie e campagne, di contro, non ne comprendono lessico e stilemi. Estranee alla retorica metropolitana tengono pragmatica fede a racconti orali e proverbi, che per loro natura non ambiscono a completa coerenza. Qui la forma è il frammento: sono le terre spaccate, i cretti incisi dalle aride estati sulle spiagge del Po. Fedeli a ciò, Ghirri e Celati, per così dire, al romanzo preferiscono il proverbio. Guardiamo per un attimo a Verso la foce di Celati: la sua forma è il diario. Non una casualità, piuttosto la meditata scelta per un ordine disorganico. Mantiene, il diario, la freschezza della materia viva, di una scrittura en plain air, al pari della fotografia. Parole impresse su carta, quasi fosse luce a stamparsi in aforismi visivi, riflessioni sparse, magari parziali o contraddittorie, ma che l’oggetto stesso richiede tali. Parlando di Verso la foce, Celati dice: “Non era letteratura, perché oggidì letteratura vuol dire romanzi, e ogni romanzo è oberato da una penosa storia […] In questo mestiere l’unica cosa che non sia fumo negli occhi sono i pezzi di roba sparsa da cui parti, dove giri intorno a qualcosa sempre in fieri, fatto di immagini e pensieri non ancora addomesticati”.

Concludendo. Se qui ho cercato anch’io di ricostruire il senso di alcunché, valgano come ammonimento e invito al concreto queste parole di Celati riguardo ai nostri quotidiani racconti orali: “ascoltare una voce che racconta fa bene, ti toglie dall’astrattezza di quando stai in casa credendo di aver capito qualcosa “in generale”. Si segue una voce, ed è come seguire gli argini d’un fiume dove scorre qualcosa che non può essere capito astrattamente”.

Bibliografia

Gianni Celati, Verso la foce, Feltrinelli, Milano, 1989

Gianni Celati, Quattro novelle sulle apparenze, Feltrinelli, Milano, 1987

Gianni Celati, Narratori delle pianure, Feltrinelli, Milano, 1985

Luigi Ghirri (a cura di), Viaggio in Italia, Il Quadrante, Alessandria, 1984