Piovre #21: Una Striscia di soldi

Il 25 aprile scorso ero a Roma per la Festa della liberazione, a Largo Dino Frisullo, per un evento organizzato da Arci, in collaborazione con la relatrice speciale Onu per i diritti umani nei territori palestinesi occupati Francesca Albanese – era la prima volta che la sentivo parlare in italiano. Durante l’incontro, un passaggio mi era rimasto particolarmente impresso, quello riguardo il mercato della guerra, che si era creato in Palestina in quegli ultimi mesi, un fiume di soldi e investimenti da parte di nazioni, aziende e società per sfruttare il momento ghiotto. Ricordo il tono delle sue parole, la voce strozzata dall’emozione e l’evidente indecisione nello scendere troppo nei particolari: “Non posso parlarne, perché mi mancano ancora le prove” (o una cosa del genere).
Per settimane ero rimasto a pensare a cosa si stesse riferendo nello specifico.

Poi, in un’intervista per Wired del 27 giugno scorso, Albanese ha annunciato la pubblicazione di un nuovo rapporto, From economy of occupation to economy of genocide, “in cui indago il capitalismo coloniale, e racconto come ci sia tutta una galassia di aziende, istituzioni e enti privati che favoriscono l’occupazione e giustificano il genocidio”, presentato il 1 luglio all’Onu e reso pubblico il 3 luglio.
Il documento, una sorta di sequel del precedente rapporto del marzo 2024 Anatomy of a Genocide, propone una lettura meno concentrata sulla situazione umanitaria e più sui risvolti economici della situazione nella Striscia, legando lo sterminio sistematico dei palestinesi al ruolo di aziende, banche, fondi di investimenti, università e industrie belliche, che premono – direttamente o meno – sul governo di Tel Aviv e quindi sui vertici dell’esercito israeliano, per la continuazione del massacro, rendendo quello in atto a Gaza un “genocidio redditizio”, un’occasione per sperimentare nuove tecnologie militari e di sorveglianza sulla popolazione civile, per consolidare la già forte industria bellica di Israele, che continuerà ad esportare nel mondo intero i propri prodotti, pubblicizzandoli come “combat-tested”. In più, nel report vengono denunciate l’omertà e il doppiogiochismo dei grandi media internazionali e dei governi occidentali, che rifiutano di riconoscere il genocidio e continuano ad avere accordi con Israele, per fini militari.

Quindi, mettetevi comodi, perché la storia è lunga (consiglio della valeriana da accompagnare alla lettura, perché c’è da incazzarsi).

Dunque, il primo capitolo del rapporto contiene una ricostruzione attenta e dettagliata della sovrastruttura delle aziende coinvolte, che lucrano sulle pratiche genocidarie perpetrate da Israele, direttamente con la vendita di armi o indirettamente con la fornitura di altri servizi.
Nel complesso militare di Israele (che è l’ottavo paese esportatore di armi al mondo) le aziende chiave sono due, entrambe israeliane, Elbit Systems, privata, e IAI (Israel Aerospace Industries), statale, mentre tra i gruppi internazionali svetta la statunitense Lockheed Martin, che fornisce i jet F-35 (forniti pure dall’italiana Leonardo S.p.A.), F-15 e F-16, gli stessi utilizzati per bombardare Gaza con 85mila tonnellate di bombe, mentre la giapponese Fanuc fornisce i macchinari speciali e le tecnologie per costruire i velivoli. Considerando che la voce nel bilancio israeliano per la difesa è cresciuta del 65% tra il 2023 e il 2024, superando i 46 miliardi di dollari, si capisce la portata della mangiatoia.
Oltre il lato bellico, Gaza rappresenta poi un’ottima occasione per testare sistemi carcerari e di sorveglianza avanzati, tra cui quelli di sorveglianza biometrica, quelli via drone e i check point digitalizzati, che utilizzano l’intelligenza artificiale e l’analisi dei dati. Per tutta questa bella roba, Tel Aviv si appoggia a società statunitensi come IBM, Hewlett Packard e anche la stessa Microsoft, che forniscono sistemi e tecnologie nelle colonie illegalmente occupate (chiedo scusa, sto scrivendo questo articolo su Microsoft Word). Le statunitensi Amazon e Alphabet hanno siglato nel 2021 un contratto da 1,2 miliardi di dollari con il governo di Israele per fornire spazi cloud e sistemi di elaborazione di dati, mentre la statunitense Palantir, che nel 2024 ha tenuto il suo consiglio di amministrazione a Tel Aviv, “in segno di solidarietà” (boh…), sviluppa per Tel Aviv sistemi di intelligenza artificiale.
In più, a fornire i macchinari e le attrezzature per demolire case, infrastrutture ed edifici sui terreni palestinesi espropriati in Cisgiordania ci pensano aziende come la statunitense Caterpillar, la coreana Hyundai e la svedese Volvo. Per l’eventuale ricostruzione, spiccano i nomi della tedesca Heidelberg e la spagnola Construcciones Auxiliar de Ferrocarriles, che già forniscono i materiali edili nelle colonie illegali, mentre per lo sviluppo del mercato immobiliare, in prima linea troviamo il gruppo statunitense Keller Williams Realty, ma pure società del settore turistico come l’olandese Booking.com e la statunitense Airbnb.
Naturalmente, tutto ‘sto ben d’iddio va finanziato in qualche modo e a supporto delle colonie c’è una vasta rete di gruppi bancari, che forniscono servizi finanziari, tra cui le francesi Axa e Bnp Paribas, l’inglese Barclays, la tedesca Allianz e la statunitense Blackrock, come anche di fondi pensione e fondi sovrani, come il Norwegian government pension fund.
Infine, per l’approvvigionamento energetico, troviamo la svizzera Glenocore, la statunitense Chevron, che copre addirittura il 70% del fabbisogno israeliano ed è azionista della Ese Mediterranean Gas Pipeline (che passa in acque palestinesi, per giunta) e l’Inglese BP, che ha ottenuto licenze di esproprio di giacimenti sottomarini in acque palestinesi.

Attenzione particolare è stata riservata al ruolo delle università e alle loro responsabilità nella produzione di conoscenze, narrazioni e soprattutto tecnologie funzionali al progetto sionista. In particolare, le facoltà di giurisprudenza e i dipartimenti di archeologia e di studi sul Medio Oriente contribuiscono all’impalcatura culturale e ideologica dell’apartheid, coltivando narrazioni allineate con il governo, mentre i dipartimenti di scienza e tecnologia fungono da veri e propri centri di ricerca e sviluppo, in collaborazione con l’Idf e i vari partner del settore bellico.
Non solo in territorio israeliano: tra i finanziatori di alcuni laboratori di ricerca per tecnologie di sorveglianza del MIT (Massachusetts Institute of Technology) c’è, guarda un po’, proprio l’Imod (Israel ministry of defence) e dal 2017 l’università statunitense collabora con (ovvero prende i soldi da) gruppi come Lockheed Martin e aziende come Elbit Systems.
In Europa, con i programmi per la ricerca tecnologica Horizon (2014-2020) e Horizon Europe (2020-in corso) proposti dalla Commissione, si facilita la collaborazione tra gli enti dello sviluppo europei e le istituzioni israeliane: dal 2014, la Commissione ha erogato più di 2 miliardi di euro a entità israeliane, compreso l’Imod; la TUM (Technische Universität München) ha ricevuto circa 12 milioni di euro di fondi Horizon per 22 collaborazioni con aziende militari e tecnologiche israeliane, oltre che collaborare con IBM Israel – che gestisce il registro popolazione discriminatorio – su progetti di sistemi cloud, di sicurezza informatica e intelligenza artificiale, per un totale di circa 7 milioni di euro, e con IAI ad un progetto di circa 800mila euro per lo sviluppo di tecnologie di rifornimento a idrogeno verde, rilevanti per i droni militati usati proprio da IAI a Gaza.
In più, molte università europee mantengono legami finanziari con Israele, tra cui l’università di Edimburgo, che detiene il 2,5% del suo patrimonio (circa 25 milioni di sterline) nei colossi informatici citati sopra, oltre a collaborare con Leonardo S.p.A. e l’Università Ben Gurion attraverso un laboratorio congiunto su intelligenza artificiale e scienza dei dati.

Chiaramente è intervenuto Santa Claus, il Babbo Natale statunitense, con le sue liste di proscrizione. Sapete no, qua in Occidente per chi è vittima delle sanzioni americane c’è una sorta di damnatio memoriae, decidiamo chi è buono e chi è cattivo in base a che ci dice chi mette il culo sulla sedia più grossa a Washington. E infatti, le sanzioni non hanno tardato ad arrivare, da parte del segretario di stato Marco Rubio, seguite poi da un vergognoso silenzio da parte dei rappresentanti delle istituzioni italiane, tra cui Mattarella e Meloni (che non ha aspettato un attimo a condannare i raid israeliani a Gaza di due giorni fa sulla chiesa cattolica della Sacra Famiglia, ma che comunque ha respinto, insieme alla coalizione di centrodestra, la mozione presentata dalle opposizioni, che chiedeva al governo di sospendere il memorandum in materia di cooperazione militare Italia-Israele, il cui rinnovo è previsto per il prossimo aprile).
Meglio zitti che Molinari, mi viene da pensare, che su Rainews24, qualche giorno fa, ha accusato Francesca Albanese di avere dei titoli di studio falsi, di aver violato gli standard etici Onu e di aver avuto delle sovvenzioni da parte di Hamas.
La fonte? Probabilmente la stessa de’ il Riformista, che martedì ha pubblicato un articolo di rara bellezza, in cui inchioda Albanese alle sue responsabilità, basando la sua completa accusa su un report pubblicato da [rullo di tamburi] proprio il governo israeliano.
Proprio una fonte imparziale (peraltro per accusare la reporter di non essere imparziale)!

Tutta la mia solidarietà alla dottoressa Albanese, tra i pochi veri orgogli italiani (e poraccia, le stanno a fa veni’ i capelli bianchi).