Personalmente, una cosa molto controversa, che però mi dà piuttosto gusto quando capita, è trovare il marcio nelle cose buone. Mi spiego: la merda è merda, per cui trovare altre motivazioni per definirla tale mi sembra, oltre che inutile, anche poco stimolante (e per niente divertente); quando invece la merda sta dietro a qualcosa di apparentemente buono, che piace a tutti, non lo so che mi succede, mi trasformo in una bestia, sarà la schicchera di dopamina. E siccome gli affittuari di Roma odiano le persone con il pene e cazzo tutte le stanze “si affittano solo a studentesse” e io sto cercando casa, per cui mi sento particolarmente odioso e misogino… parliamo del Pride di Roma (scusate, piccolo sfogo).
Ora, sull’argomento Pride io ho spesso dei diverbi con i miei amici etero basic, perché c’è qualcuno tra di loro che crede che dietro questo tipo di manifestazioni non ci siano delle vere e proprie rivendicazioni politiche, solo un desiderio inutile di appariscenza. E io mi troverei pure d’accordo, anche se solo in parte: semplicemente non capisco che problema ci sia nell’allontanare, anche solo per un giorno, la realtà politica che c’è dietro alla questione e trasformare per una volta una battaglia in una festa. È il motivo per cui lo chiamiamo “orgoglio” e non “jihad”, peraltro. Si legge persino sui canali ufficiali dell’evento: “per la CELEBRAZIONE dell’amore, la diversità e l’inclusione”. Poi – e mi scuso per la banalità che sto per dire – questa mi sembra una cosa molto italiana, il “non si parla di politica durante le feste”, per cui mi trovo in una posizione abbastanza collaborativa (per quanto, comunque, organizzare un corteo e appropriarsi di spazi collettivi per celebrare la propria identità e i propri ideali a me sembrano delle robe decisamente politiche, però ok).
Tra le tesi antagoniste ci sono quella del rainbow washing, o, in generale, quelle di tutte le pratiche di cooptazione consumistico-capitalista delle istanze LGBTQIA+, che in sostanza bollano il Pride come ennesimo bene di consumo, al servizio – o meglio al soldo – delle multinazionali (su questo, esplicativo il titolo di Domani del 15 giugno, che parla della “crisi di mezz’età del Pride”, che compie 56 anni proprio quest’anno) e ne sottolineano la mancanza di una valenza rappresentativa, a favore di dinamiche di marketing.
Però quest’anno è stato un po’ diverso.
Sabato scorso, alle 14:30, da Piazza della Repubblica a Roma, è partito il consueto corteo annuale per il mese del Pride, organizzato dal Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli e già nei giorni precedenti, nell’ambiente, era scoppiata una bella bomba di merda, a causa della pubblicazione sui canali social degli organizzatori dei loghi delle aziende partner dell’evento, siccome alcune tra queste erano risultate inaccettabili per gli attivisti più radicali delle correnti Pro-Pal. Trattasi di aziende inserite nelle liste di proscrizione di movimenti come BDS, che promuovono il boicottaggio di numerosi brand collusi nel genocidio palestinese, o in qualche modo collegati con l’economia israeliana, o semplicemente con posizioni controverse a riguardo.
La contestazione più rumorosa ha riguardato Starbucks, che ha tra i suoi principali azionisti i fondi Vanguard (azionista anche di Elbit Systems, il principale produttore israeliano di armi) e BlackRock (investitore in Lockheed Martin, produttore di jet da combattimento per l’IDF), oltre all’ex CEO dell’azienda Howard Schultz, che nel 2021 ha investito 1.7 miliardi di dollari in Wiz, una startup israeliana di sicurezza informatica.
Ma la lista è lunga (e si trova con grande “orgoglio” sul sito del Pride):
– The Walt Disney Company Italia (che ha persino sfilato con un suo carro a tema per il corteo, in barba alle tendenze transfobiche dei suoi dirigenti) ha donato 2 milioni di dollari a varie organizzazioni umanitarie israeliane dopo l’attentato di Hamas del 7 ottobre 2023 e più di 20mila dollari in donazioni spontanee da parte dei suoi dipendenti, senza mai condannare, né con parole e né con atti effettivi, la rappresaglia israeliana in atto a Gaza;
– Procter and Gamble (P&G) ha creato un hub di ricerca a Tel Aviv, per il quale l’azienda investe 2 miliardi di dollari l’anno, l’Israel House of Innovation (IHI), che collabora con le più grandi aziende farmaceutiche (come Teva Pharmaceuticals) e soprattutto con la Hebrew University of Jerusalem, che porta avanti quasi la metà di tutte le ricerche scientifiche in Israele (tra cui anche quelle ingegneristico-militari);
– Deloitte ha diverse sedi proprio in Israele, tra cui la sede centrale di Tel Aviv, poi Haifa, Gerusalemme, Nazareth e altre, paga tasse israeliane, reinvestite, in parte, proprio nelle azioni militari degli ultimi anni in Palestina;
– Liquid I.V. di proprietà di Unilever, protagonista del caso Ben & Jerry’s (sempre di proprietà della società), azienda che nel 2022 aveva annunciato di interrompere la propria vendita nei territori illegalmente occupati della Palestina, salvo poi trovare i dispiaceri delle filiali israeliane in loco, supportate dalla politica USA e dal consiglio d’amministrazione di Unilever, che ha bloccato l’iniziativa.
In più, sempre sul sito, si trova la voce: “Sostieni il Roma Pride!”, che abilita gli utenti a donazioni tramite PayPal, la stessa che fornisce i suoi servizi ai coloni israeliani in Cisgiordania, ma non ai palestinesi che vivono negli stessi territori (insieme anche a quelli di Gaza, naturalmente).
Bellissime le scene del carro di Keshet Europe, l’organizzazione degli ebrei europei appartenenti alla comunità LGBTQIA+, che, durante la manifestazione, si è rifiutato di aderire ai 5 minuti di silenzio per le vittime di Gaza. Avevano pure le bandiere arcobaleno della pace con la stella di Davide, che, visti i tempi, sono tipo delle bandiere antifasciste con la svastica sopra.
In merito alla questione sponsor, le posizioni sono state molteplici:
– L3 inutil3: Mario Colamarino, presidente del Circolo Mario Mieli e portavoce di Roma Pride, ha risposto tempestivo: “Sul tema Palestina abbiamo chiesto chiarimenti agli sponsor”, come se il problema fossero delle dichiarazioni scomode o delle parole di cattivo gusto;
– L3 ipocrit3: Stefano Mastropaolo, responsabile partnership e sponsor dell’evento, ha dichiarato: “Senza sponsor non potremmo offrire uno spazio gratuito, né una parata grande”, poi però la festa ufficiale è a pagamento, ci vuole il biglietto, mi raccomando, che c’è il cachet per gli artisti;
– L3 ancora più ipocrit3: Arcigay Roma si è espressa con durezza con un video Instagram, in cui parla di “no Pride in genocide”, non solo denunciando aspramente il coinvolgimento con le aziende complici nel genocidio, ma definendo “i nostri corpi come carne per il mercato”, ponendo l’attenzione sulla capitalizzazione dell’evento da parte delle multinazionali. Vabbè, poi al corteo ci sono andati lo stesso, ma “con una postura sempre più critica”. Basta l’incazzatura! Evidentemente quelli di Arcigay votano PD.
Chiaramente di realtà alternative e antagoniste ce ne sono eccome, tra le più interessanti c’è proprio PRIOT, acronimo di “Pride Romano Indecoroso Oltre Tutto” (che grandi!), una rete queer radicale di Roma, che promuove eventi alternativi, boicottando quelli ufficiali asserviti al capitale, professando una politica di attivismo intersezionale. Tra questi, ce n’è uno in particolare che ha attirato la mia attenzione, una sorta di processione parareligiosa chiamata “Via Frocis”, organizzata il 5 aprile 2023. A tal proposito, vorrei chiudere citando un passo dell’intervista di quel mese, rilasciata da alcuni membri del coordinamento PRIOT a Dinamo Press, perché è quantomeno paradigmatico: “Abbiamo pensato di riappropriarci delle strade di Roma. Percorreremo un itinerario composto di 14 stazioni portando il peso della croce dell’eterocispatriarcato che ci condurrà alla stazione finale: la nostra resurrezione frocia. Nel percorso ci faremo guidare dallo spirito della nostra Sacra Vulva: l’Holy Vagina”.
Almeno sono simpatic3!