Partirei da una delle critiche che si sono sentite a riguardo delle proteste e scioperi delle ultime settimane: “smettetela di occuparvi delle guerre degli altri ed iniziate a protestare per i nostri problemi”. Innanzitutto, un doveroso chiarimento: ciò che succede oggi e succedeva ieri in Palestina è affar nostro. La responsabilità della creazione dello Stato di Israele è occidentale. Occidentale è il supporto economico, politico, mediatico ad Israele, il quale si trova nella posizione di forza attuale unicamente grazie a noi. Occidentale è l’autorappresentazione di Israele: “unica democrazia del Medio Oriente”, “avamposto orientale dell’Occidente”. L’Italia poi non è esente da tutto ciò, anzi ne è ulteriormente chiamata in causa dalla sua collocazione geografica, e quindi politica. Il nostro Paese occupa infatti una posizione centrale all’interno del Mediterraneo. Se fossimo uno Stato decente la nostra politica estera sarebbe rivolta a tutto il Mediterraneo e le nostre responsabilità politiche a tutti i paesi del bacino. Fra Roma e Gerusalemme intercorre la stessa distanza geografica che fra Roma e Mosca, una serie di Stati si frappongono fra noi e la Russia, solo il mare fra noi ed Israele. Non si capisce quindi perché i palazzi del governo siano così interessati alle vicende delle gelide terre del Nord e così poco alle sorti della questione palestinese, la quale ci chiama in causa con forza ben maggiore. Dunque, a che titolo ce ne vorremmo tirar fuori?
Tuttavia quei critici su un fatto hanno ragione: quand’è l’ultima volta che abbiamo visto una mobilitazione di questa portata per questioni interne, italiane o europee? Ci si sforza ma nulla viene alla mente. Di cosa si tratta quindi? Innanzitutto cerchiamo di capire cosa abbia permesso un tale plebiscito per la Palestina. Da non sottovalutare certamente è il semplice fatto di non essere un affare interno. Dalla distanza da cui guardiamo è molto più semplice avere una visione in bianco e nero, vittima e carnefice. Non che le azioni di Israele rendano ciò complesso (difficile poter sostenere razionalmente un genocidio), ma ciò che voglio dire è che nessuno di noi è coinvolto in prima persona, per lo meno molto pochi fra noi. Per la maggioranza uno schieramento netto sulla questione non ha conseguenze personali significative, né confligge con propri interessi, credenze, abitudini quotidiane. Ciò permette, a noi italiani, un’adesione immediata, irriflessa, ad una causa che appare (oggi del tutto a ragione) immancabilmente giusta, senza necessità di compromessi. Insomma, si va a colpo sicuro. E qui il secondo punto: sui fatti di Palestina esiste una tradizione interpretativa molto lunga. Sono quasi ottant’anni che la questione periodicamente si ripresenta, mutati gli attori, sempre negli stessi termini – ciò permette, fra le altre cose, anche l’intergenerazionalità che molti notano nei cortei di questi giorni. Sono fatti conosciuti e si ha un’idea chiara della forma che un’opposizione ad Israele possa prendere: dalla specifica interpretazione dei fatti storici, a quali siano le argomentazioni critiche più solide, fino alla simbologia e terminologia che nelle proteste si adotta (kefiah, l’ulivo, l’anguria, i vari cori, ecc.). Tutto ciò è importantissimo: il fatto di potersi inserire in una tradizione critica rende un’adesione diffusa molto più semplice. La lotta è immediatamente riconoscibile. E quindi il terzo fatto: la risposta italiana è potuta essere così decisa anche a causa della forte avversione del governo sul tema. L’Italia, fra i paesi europei più vicini alla causa palestinese, si ritrova con un governo che persegue la linea più rigorista del filosionismo. Per dare un esempio, nonostante le nazionalità più diffuse sulla Flotilla fossero quella italiana e quella spagnola, in quest’ultimo paese si è vista una mobilitazione minore in reazione ai recenti fatti, ed il motivo sembra uno: il Presidente del Governo spagnolo dichiara ad alta voce ciò che in Italia è gridato unicamente dalla gente in piazza. Una forte ed esplicita opposizione fra popolazione e classe dirigente non può che alimentare il malcontento e il bisogno di esternarlo.
Su quest’ultimo punto vale la pena aprire una breve parentesi: anche la nostra classe dirigente attuale ha una ricca tradizione filoaraba alla quale poter attingere. La suddetta tradizione interpretativa della questione palestinese infatti ha avuto anche un importante contributo proveniente da destra. Il Movimento Sociale Italiano (MSI), partito neofascista della Prima Repubblica, ha avuto una consistente, per quanto non maggioritaria, frangia esplicitamente pro-araba e filopalestinese. Ciò che muoveva, più che l’antisemitismo, era l’ispirazione antiamericana, antimperialista e terzomondista che cercava una terza via fra comunismo sovietico e capitalismo americano. Questo filone dell’MSI influenzò profondamente il Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del partito, il quale fu la culla politica della giovane Meloni e dei suoi. Il Fronte della Gioventù dagli anni ’70 fino ai primi ’90 si espresse esplicitamente a favore della causa palestinese. Si ricordano giovani missini ornati di kefiah e volantini del Fronte che recitano “Fermare il massacro” (nel 1990) per invitare alle proprie manifestazioni in supporto ai palestinesi. Una linea che la destra italiana ha progressivamente smarrito fino ad arrivare al culmine dell’oblio con l’attuale governo Meloni. La nostra presidente si ricorda ancora di tutto ciò, ma nel suo generale processo di istituzionalizzazione ha reputato più conveniente darsi ad un incondizionato filoamericanismo: di qui l’irremovibile filosionismo, la retorica del terrorismo islamico come Male Assoluto, e la sempre comoda islamofobia che alimenti sentimenti anti-immigratori.
Ma torniamo a noi. Perché sulle questioni interne una mobilitazione simile a quella pro-Palestina richiede uno sforzo decisamente maggiore? Basterà ribaltare le tre motivazioni che abbiamo su ricordato: lontananza della causa, tradizione interpretativa consolidata, opposizione governativa. Andiamo con ordine: su questioni interne il plebiscito è pressoché impossibile. Quando si discute di problemi a noi vicini, che ci toccano nel quotidiano non ci può essere unanimità e unilateralità nel giudizio. Ogni gruppo sociale ha i propri interessi, opinioni, visioni del mondo. Chi ha mai visto un’assemblea condominiale di baci e abbracci? Ciò che si vede invece in una società che discute di sé è uno scontro costante di posizioni, spesso inconciliabili. Unica via percorribile è il costante dibattito e la comprensione di tutte le ragioni in causa, da ciò segue la difficoltà di assumere posizioni unilaterali e incondizionate. Nella discussione poi i più cauti si limiteranno a dire “è una questione complicata” e se ne tirano fuori. Ciò equivale a dire “non ci ho capito molto ma voglio che invece lo sembri”. Ed è qui che arriviamo al secondo punto: perché è così complicato “capirci qualcosa”? Nella questione palestinese abbiamo visto che la lettura dei fatti ha una lunga storia e ci si può appellare a questa tradizione consolidata. Negli affari interni questo non è più possibile: le tradizioni critiche più consolidate, quelle novecentesche, hanno fatto il loro corso. Ormai pochissimi si possono dire apertamente marxisti, comunisti ecc. senza sentirsi dei dinosauri in vetrina. E questo, più che dire qualcosa sulla teoria marxiana, dice qualcosa sullo stato del marxismo come ideologia: non è più un riferimento solido e diffuso secondo il quale leggere la realtà. Insieme ad esso sono cadute anche le altre ideologie novecentesche: quali categorie e schemi interpretativi ci rimangono oggi per leggere la nostra realtà? Non sembra esserci alcuna visione d’insieme che sia un valido candidato a sostituire quelle passate. Invece è soprattutto di questo che abbiamo bisogno per “capirci qualcosa”, e per farlo sarà anche necessario raccogliere i cocci di quelle passate (marxismo compreso), consapevoli tuttavia di doverle riarrangiare per costruire una nuova concettualità che sia all’altezza dei tempi. I nostri problemi contemporanei hanno bisogno di concetti contemporanei, i quali ancora ci mancano. In terzo luogo, le difficoltà di mobilitarsi internamente derivano anche dall’assenza di forze politiche convincenti. Insieme alle concettualità passate sono decedute anche le forze politiche corrispondenti: il residuo dello scontro politico passato è l’odierna malandata contrapposizione destra-sinistra che sempre più vuol dir nulla. Il sistema democratico occidentale ha acquisito una crescente tendenza all’immobilismo, alla poltrona calda, tale che è difficile portarlo ad un rinnovamento interno. Un rinnovamento che servirebbe a trovare risposte politiche tempestive a problemi nuovi. Ed è anche questa mancanza di voci convincenti ad alimentare la progressiva sfiducia nella politica come mezzo risolutivo, o più in generale la sfiducia in un qualsivoglia cambiamento. Si tratta, per concludere, di tutti questi ostacoli, strutturali o contingenti, quando si parla della difficoltà di protestare per una causa nostra. Tuttavia, bisogna essere consapevoli di un fatto: perché un cambiamento ci sia non basta lamentarsi, imbucare schede bianche o con piselli disegnati o, ancora, astenersi. Bisogna pretendere, creare disagio, alimentare il discorso critico, perché l’immobilismo, anche se polemico, fa sempre il gioco di chi governa malamente.
Tornando alle proteste di questi giorni. Un movimento popolare di questa portata ha certamente un valore intrinseco: la lotta specifica che sta portando avanti. Ma può, se non lasciato morire, avere anche un valore che vada ben al di là di ciò. La partecipazione attiva, fisica ad una protesta, la “massa in movimento”, ha la forza di poter riattivare la speranza che qualcosa sia possibile, che qualcosa possa cambiare. Se si sapranno porre le domande giuste sarà quindi possibile trovare delle vie nostrane al dissenso. La costruzione di concetti critici è un lavoro intellettuale ancor prima che d’azione. Ma che l’azione, quella della protesta, non può che favorire: solo laddove la gente si espone in prima persona nasce il bisogno di “capirci qualcosa”. Non sempre conoscere e capire sono la precondizione della partecipazione e del dialogo. Spesso piuttosto è il contrario: quando siamo chiamati in gioco dalle circostanze, da quello scontro attivo che è la protesta o un dibattito, ci scopriamo avidi ricercatori della relativa informazione. Spesso cerchiamo di capire solo dopo che siamo stati tirati in ballo, solo dopo che qualcosa ci ha smosso e costretto a partecipare.
Si annunciano tempi in cui sempre più gli eventi ci costringeranno all’azione. Le prospettive di riarmo e la retorica bellicista stanno riscuotendo a vita la Vecchia Europa anestetizzata da decenni di antimilitarismo e pace sociale. Conflitti interstatali si profilano all’orizzonte e assieme ad essi, inevitabilmente, conflitti sociali all’interno. Il nostro compito, quello di Sottosuolo, è contribuire allo sforzo di comprensione dei nodi problematici, ad impedire che le risvegliate forze sociali, per mancanza di direzione, atrofizzino e muoiano. Abbiamo valutato che a tal fine è necessario cominciare ad analizzare proprio quest’ultimo tornante storico che abbiamo imboccato: il riarmo e la guerra paventata. Questo l’argomento del nostro prossimo numero. Poiché il clima di riarmo, insieme a Gaza, sono i punti nei quali la fine morale dell’Occidente si rende più palese ed inaggirabile. Partire da ciò che è più chiaro per noi servirà in futuro a risalire alle marcescenze più nascoste.
Foto in copertina di @martinarollafoto.